Ricordo spesso l’insediamento da premier di “Renzi-ego”. In conferenza stampa, con a fianco il neo ministro Orlando, ha esibito immediatamente la sua specialità, la “bomba” a effetto pubblicitario: “Ed entro giugno faremo la riforma della Giustizia”. Con contestuale deglutizione fantozziana del guardasigilli spezzino, strabuzzamento degli occhi e tacito assenso coartato. Oramai giunti al quarto anno della annunciata riforma s’è visto ben poco (negoziazione assistita, parziale snellimento del processo esecutivo, ritocchini al diritto di famiglia, intervento criticato sulla prescrizione nei processi penali). Quisquilie.

Lo stesso guardasigilli, dopo aver profuso grande passione, disponibilità al dialogo e al confronto, competenza tecnica nei suoi interventi, ha però ammesso da ultimo, a denti stretti, che in realtà avrebbe voluto fare di più. Più volte ha dichiarato che sotto il suo mandato i processi civili “si concludono in 1 anno” e “si sono ridotti da oltre 6 milioni a meno di 4 milioni”.

Salvo ammettere di recente che “ancora non si concludono in 1 anno” e salvo non spiegare che la riduzione dei giudizi pendenti è frutto soprattutto di tre fattori:

1. crisi economica, in virtù della quale la gente rinuncia a tutelare i propri diritti;

2. aumento vertiginoso delle spese di giustizia (anche di dieci volte negli ultimi cinque anni, sia per fare cassa, sia per deflazionare l’accesso alla giustizia. Si crea quindi una giustizia censoria secondo cui se sei benestante puoi ricorrere alla giustizia, altrimenti taci e subisci);

3. sfiducia nel sistema giustizia (lenta, incerta, ineseguibile, incomprensibile) che induce i soggetti a rinunciare alla tutela dei diritti, temendo di ottenere più svantaggi che vantaggi.

Questa è l’amara verità, ben nota a chi frequenta il mondo giustizia. In una scala di valori di riforme annunciate, possiamo rilevare come ci si sia fermati a uno, forse due, su dieci. Un percorso mediocre. La giustizia italiana non ha bisogno di balle spaziali, ma di fatti concreti. Innanzitutto, ha bisogno di quattro parole chiave: organizzazione, celerità, certezza, innovazione.

Organizzazione: è un elemento fondamentale perché nella penisola esistono tribunali eccellenti dove tutto funziona a meraviglia, con tempi processuali invidiabili, con un grande decoro. E, all’opposto, tribunali che sono fatiscenti nell’aspetto e nel funzionamento. La differenza la fa dunque il fattore umano e non le risorse in sé: magistrati dirigenti che hanno passione, dedizione, rigore e capacità, trasformano il tribunale, i giudici e il personale amministrativo, depressi e scialbi, in un comparto perfetto. E il sistema di tutela fa un balzo in avanti.

Celerità: è un elemento prezioso come l’acqua di fonte. Senza di essa, i diritti si atrofizzano. In un grave conflitto familiare o nella compromissione di diritti superfondamentali quali quelli genitoriali e bigenitoriali, è necessario che i giudici intervengano bene e subito, non dopo anni, così che la situazione si aggravi. Se devo recuperare un credito fondamentale per la mia sopravvivenza (personale, familiare, imprenditoriale) non posso attendere anni, con la sparizione del debitore. Se ho timore per la mia incolumità, fondatamente, non posso attendere che venga meno. Oggi la celerità non esiste e rarissime sono le reazioni tempestive alle domande. Ogni fascicolo diviene un polveroso fascicolo, le cui priorità sono prescelte dai magistrati secondo logiche astruse o secondo l’alibi del troppo lavoro.

Certezza: un altro elemento fondamentale che investe l’indole culturale italiota in generale. Ma che dinanzi alla tutela dei diritti diviene prezioso. Servono: fonti di legge certe (scritte dunque con chiarezza, semplicità e rigore, in modo che non vengano poi eluse, adattate, interpretate eccessivamente, dunque stravolte); una giurisprudenza certa (dunque con orientamenti poco creativi e nel caso solo se necessario, poco oscillanti, poco contraddittori, come invece avviene da sempre); una esecuzione certa dei provvedimenti, mentre oggi al contrario è certo che difficilmente si porterà ad esecuzione, perlomeno in tempi brevi e ragionevoli.

Innovazione: altra parola chiave. Innovare significa digitalizzare e introdurre best practice che consentano di deburocratizzare e eliminare le prassi (è grottesco osservare come ogni tribunale abbia ciascuno la propria prassi, il proprio protocollo, un vero sistema feudale, sostanzialmente delegificante peraltro). Per digitalizzare occorre non solo vantarsi che il Processo civile telematico funzioni (dopo oltre dieci anni e oltre tre miliardi spesi, sarebbe sorprendente il contrario) ma occorre chiedersi come mai ogni giurisdizione pretenda di digitalizzarsi a modo suo (dal Processo Amministrativo Telematico a quello Tributario, da quello Penale a quello della Corte dei Conti, con regole, tempi e costi autonomi), creando un irragionevole coacervo di regole diverse.

Occorre quindi fare finalmente giustizia. Diversamente, l’Italia rimarrà sempre tra gli ultimi posti delle classifiche internazionali, con un indice di fiducia esterno e pure interno assai scarso. E con la precarietà dei diritti e con lo stato larvale e incompiuto dei doveri.

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