Un’altra città è caduta, Mosul, il gioiello della corona del Califfato. Come Kobane in Siria e Ramadi in Iraq, il secondo centro urbano più grande dell’Iraq è stato conquistato dopo un lungo assedio durato quasi un anno, un’eternità. E come le altre città strappate al Califfato, di Mosul rimangono solo le rovine. I mercati, le scuole, le piazze, anche le moschee e gli edifici in cui la burocrazia dell’ISIS operava, sono scomparsi. Per i sopravvissuti, però, questa ‘liberazione’ è fonte di poca gioia. Mentre marciano dal centro della città, dove l’ultimo bastione di combattenti dell’ISIS ha combattuto fino alla morte, gli uomini e i ragazzi vengono fermati, perquisiti ed interrogati. A controllare i posti di blocco sono le numerose milizie e gruppi armati che hanno partecipato all’assedio senza entrare in città a combattere. Bloccati dalla decisione delle forze di coalizione e del governo iracheno, da settembre aspettano di vendicarsi. E, come l’esercito iracheno ha fatto dovunque, in assenza dei jihadisti saranno i civili a soddisfare questa vendetta.
Tutto ciò è già successo.
Torniamo indietro al 2007. Il Surge americano ha sconfitto l’insurrezione e il generale Petreus ha convinto i leader tribali sunniti a girare le spalle ai jihadisti. In cambio aveva promesso una divisione equa del potere tra sunniti e sciiti, ossia la riconciliazione. Ma non è stato così. Non appena gli americani hanno lasciato il paese, il governo sciita di Maliki ha liberato i jihadisti (tra cui al Baghdadi) e ha permesso alle molte milizie di vendicarsi sulla popolazione sunnita. Il canovaccio di questa tragedia pluridecennale non è dunque cambiato e forse non può essere modificato con facilità è proprio questo che l’ISIS e la comunità jihadista vogliono farci credere, che per i sunniti non ci sarà pace al di fuori del Califfato. Solo la nuova nazione può riportare un certo grado di normalità nel quotidiano, solo il califfato può garantire la loro liberazione.
Difficile per i sunniti con credere a questo mantra. Prima di essere conquistate dall’ISIS, molte delle città siriane che nel 2013 e nel 2014 erano in preda all’anarchia politica ed i residenti erano alla mercé dei signori della guerra e dei gruppi armati. Lo Stato islamico ha portato l’ordine, nonché l’elettricità e l’acqua corrente. Nonostante l’orrore della legge sharia, la popolazione locale l’ha accettata perché per secoli i leader tribali l’hanno applicata.
Oggi, in alcune di queste città, i nuovi governanti discriminano apertamente la popolazione sunnita. A Menbic, nella Siria settentrionale, i curdi che l’hanno conquistata la cogestiscono con il regime di Assad. A Ramadi il governo iracheno ha ricostruito solo le case degli sciiti. La corruzione, la discriminazione e la brutalità contro i sunniti sono tornate insieme alla vendetta. Senza riconciliazione, è solo una questione di tempo prima che la popolazione sunnita sviluppi nostalgia per il califfato e percepisca la sua brutalità come una solida difesa dei sunniti contro il mondo.
I politici e gli esperti concordano che per sconfiggere l’ISIS bisogna sradicare la causa principale della sua esistenza, ma poche persone concordano sulla sua natura. Dall’invasione dell’Iraq nel 2003, la vendetta è stata l’unica bandiera per ricercare la legittimità e commettere atrocità l’unico strumento per garantire il potere. In poche parole, questa è la madre tutte le cause della catastrofe che si è svolta in Iraq e in Siria e la linfa vitale del califfato. Se non si può rimuoverla, la storia si ripeterà e l’ISIS continuerà a rinascere dalle ceneri dell’ultima reincarnazione. Come nel 2007, siamo a un bivio critico ed è imperativo non perdere la nuova opportunità per sbarazzarsi di questo mostro.
La caduta di Mosul è molto importante, simbolicamente è un grosso colpo per il califfato perché la sua vera anima è irachena e non siriana. Ed irachena è anche la leadership il cui obiettivo è sempre stato costruire un nuovo stato in Iraq. Nel 2011 la guerra civile siriana è stata un’opportunità unica per raggiungerlo, nulla di più, ed oggi la Siria può rappresentare un luogo sicuro dove ricominciare da capo. Da quasi un anno, la leadership di ISIS si sta preparando per la sconfitta in Iraq e sta cercando di tornare in Siria, ma non a Raqqa che, come Mosul, cadrà presto. Lo Stato islamico si è trasferito lungo il fiume Eufrate, nell’antica Mesopotamia, proprio dove nacque la nostra civiltà. La provincia di Deir al Zour, una volta sotto il dominio brutale di Assad, ad esempio, è stata scelta quale nuova roccaforte. Si tratta di un territorio con una popolazione di circa 200.000 persone ancora saldamente in mano all’ISIS.
Chi è alla guida del califfato sa bene che non sarà possibile per le forze di coalizione condurre in questa regione una campagna militare simile a quella perseguita in Iraq. Il motivo sono le tensioni geopolitiche tra il regime russo, il regime iraniano e il regime di Assad da una parte e dall’altra quello americano ed i curdi. Con un po’ di fortuna, l’ISIS potrebbe anche trarre vantaggio dalla lotta tra gli sponsor arabi per il controllo della guerra per procura in Siria, se così fosse allora sarà possibile sopravvivere abbastanza a lungo per tornare in Iraq quando la popolazione sunnita sara’ nuovamente pronta per sostenere i jihadisti. Ciò che conta è la sopravvivenza del califfato.
Non importa quanto sia grande o se il gruppo che lo gestisce si chiama ISIS o qualcos’altro, a questo punto le sigle sono irrilevanti, ciò che conta è che esiste ancora. Non importa se ha perso l’80 per cento del suo territorio, ciò che conta è che non venga sconfitto. E la sconfitta verrà solo con pace non con la guerra. Una pace che implica nuove frontiere, ovvero una divisione dell’Iraq e della Siria, che idealmente includa anche piccole città e regioni indipendenti per le minoranze, ad esempio Cristiani e Yazidis. Ma raggiungere questo sogno è infinitamente più difficile che avviare un’altra campagna di bombardamenti, una verità che la storia ha sperimentato da diversi decenni. Il Califfato ne è cosciente e la sua scommessa è che nulla cambierà per molti altri anni a venire.