Passeggiano come se nulla fosse nel cortile del carcere di Lecce con in mano la “santina”, recitano la “favella” e poi la formula del “giuramento” alla Sacra Corona Unita. Accanto a ogni iniziato ci sono almeno cinque persone: rendono valido il rito di affiliazione di un nuovo adepto oppure il “movimento”, il passaggio di grado di un membro dell’organizzazione. Riti, tradizioni mafiose e scalata alle gerarchie criminali che avvengono davanti a ignari agenti della penitenziaria.
Il pentito svela la geografia della Scu
“Era estate: giugno, luglio, prima che uscissi. Era l’R prima sezione, Sezione di isolamento, istituto penitenziario di Lecce. La sezione me la ricordo perché mi spostarono lì perché ebbi delle liti col certi tarantini ed il ‘movimento’ di quarta me l’avevano fatto nella Sezione R Prima, cella numero 11”. Nella calda aula del tribunale di Taranto le parole del collaboratore di giustizia Vito Mandrillo, tagliano il silenzio. Avvocati, giudici, imputati e familiari ascoltano ammutoliti le rivelazioni del 25enne che dopo l’arresto per omicidio ha deciso di collaborare con i pubblici ministeri Alessio Coccioli e Antonella De Luca, scoperchiando la pentola degli affari delle cosche del Tarantino. Perché il disastro ambientale e sanitario causato dalle emissioni dell’Ilva non è il solo problema di questa terra.
Antimafia: “E’ il nuovo Welfare”
Qui “la Sacra corona unita sta diventando un sistema alternativo allo Stato, il nuovo Welfare” ha detto la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. E del resto, non è la prima volta: alla fine degli anni ’80 la guerra di mafia tra il clan dei fratelli Modeo e quello delle famiglie D’Oronzo-De Vitis diede vita a una vera mattanza: quasi duecento morti ammazzati in tre anni. Poi gli arresti, la nascita del pentitismo e i maxiprocessi come “Ellesponto” e “Penelope” inflissero secoli di carcere a capi e gregari. Ma distanza di 30 anni, in tanti hanno lasciato le celle e la maggior parte ha cercato di riprendere in mano le redini dei clan.
“Mafia tentacolare, bonifica difficile”
Negli ultimi tre anni la Direzione distrettuale antimafia di Lecce e la Procura ionica hanno messo a segno decine di operazioni, un lunghissimo elenco di titoli fantasiosi: Alias, Città nostra, Feudo, Pontefice, Undertaker, Sangue Blu, Game Over, Impresa, Fisheye, Duomo, Neve Tarantina, The old, Kinnamos, No one, Infame, Zar, Terra nostra, Mercatino. Eppure la malavita continua a sopravvivere: “Paradossalmente – ha spiegato la commissione parlamentare antimafia nell’ultima visita – la forza della Scu sta nella sua configurazione reticolare, senza vertice, con famiglie che si spartiscono pacificamente il Salento. E se questo rende possibili operazioni di smantellamento delle singole realtà, ciò però complica la completa bonifica del territorio”. Associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, usura sono le accuse più frequenti. Gli omicidi sono fortunatamente rari ma, come la storia italiana insegna, quando la criminalità non spara vuol dire che gli affari vanno a gonfie vele. Taranto resta un territorio a sé rispetto al resto del Salento, ma come le cosche salentine ha stretto rapporti con le ‘ndrine calabresi o i gruppi campani: il core business è il traffico di stupefacenti, ma non solo.
Dia: “Accordi con calabresi per gli appalti”
Nella sua relazione semestrale, la Dia ricorda l’operazione Feudo delle Fiamme gialle “che aveva fatto luce sugli accordi stretti con le cosche calabresi per i traffici di sostanze stupefacenti e di tabacchi lavorati esteri, per l’usura e le estorsioni, nonché per acquisire, attraverso prestanome, il controllo di attività economiche e la gestione di appalti e servizi commerciali”. La Direzione investigativa antimafia ha ridisegnato la mappa del capoluogo individuando ben 13 famiglie: “Tali gruppi, ciascuno dominante in un’area circoscritta – in genere coincidente con un rione o un quartiere – in assenza di un capo e di regole comuni, tenderebbero ad accaparrarsi, anche con azioni di forza, il mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti e quello estorsivo”. Poche settimane fa la Corte di Cassazione ha confermato le condanne ai capi e agli affiliati del clan mafioso dei “Taurino” che ha la sua roccaforte nel centro storico, ma è il quartiere “Paolo VI” quello costruito insieme all’Ilva che sembra una polveriera con ben 5 gruppi malavitosi: le famiglie Modeo, Ciaccia, Cesario, Pascali Cicala. In provincia il discorso non cambia con 4 gruppi che si spartiscono il territorio: le famiglie Caporosso-Putignano, Stranieri, Cagnazzo e soprattutto Locorotondo, detto ‘Scarpalonga‘. L’uomo arrestato dai carabinieri nell’operazione ‘The old‘, per la Dia controlla i territori di Crispiano, Palagiano, Palagianello, Mottola, Massafra e Statte oltre a quelli di Pulsano (insieme al gruppo Agosta) e Lizzano (insieme ai fratelli Cataldo e Giuliano Cagnazzo).
Criminali spregiudicati e nuove leve agguerrite
“In provincia – si legge nella relazione – si registra una situazione conflittuale in cui sono maturati un omicidio ed un duplice tentato omicidio commessi a Pulsano, che dimostrano come la spregiudicatezza e la propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi siano diventate modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali o per il controllo del mercato degli stupefacenti. In questo contesto, i vecchi capi, pur mantenendo ruoli predominanti e di direzione strategica, si vedono costretti a relazionarsi con le agguerrite, nuove leve criminali”. Un quadro confermato anche dal collaboratore Mandrillo che ha indicato in ‘Scarpalonga’ uno dei massimi gradi della criminalità tarantina.
Il rito di affiliazione: “Presi la mia cavallina bianca…”
Ha fatto nomi, cognomi e soprannomi, recitato a memoria le formule del cerimoniale partendo dalla “favella”, la filastrocca che ogni aspirate sacrista impara a memoria e declama davanti al suo padrino: «Fu una bella mattina di sabato santo, quando allo spuntare del sole – scandisce Mandrillo in video conferenza da una località protetta – mi venne in mente di fare una bella cavalcata, andai nella mia scuderia bianca, presi la mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’oro e staffe d’argento e cavalcai per manti e colline fino quando non arrivai su una distesa pianura dove c’erano due uomini che si tiravano di coltello, scesi dalla mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’ oro e staffe d’argento e mi misi spalla e spalla con il mio avversario “Cosa ne avete fatto?”, “Ne ho fatto sangue”, “E dove l’avete colpito?”, “Sotto all’avambraccio destro”, “Allora siete un bevitore di sangue?”, “Alt, saggi compagni! Non sono un bevitore di sangue, ma come ben sapete non ho fatto altro che unire due anime in un solo corpo”».
Giuramento, gradi e gerarchie
E poi il giuramento e i gradi della gerarchia criminale della Sacra Corona Unita: la «Picciotteria» (che ormai non viene più usata), la «Camorra», lo «Sgarro», la «Santa», il «Vangelo», il «Trequartino», il «Crimine», il «Medaglione», il «Medaglione con Catena» e infine il «Bastone». Qualcosa è certamente cambiato dall’idea originale di Pino Rogoli, il mesagnese fondatore della quarta mafia che si oppose all’espansione in Puglia della camorra, in particolare quella cutoliana, ma che a Taranto ancora sopravvive. Silenziosa e invisibile, ma brutale. Proprio come i fumi e i veleni delle ciminiere di cui fino a qualche anno fa nessuno parlava.