Secondo le recentissime anticipazioni Svimez, il Sud consolida la timida crescita ma con un ritmo da bradipo, col quale potrebbe recuperare i livelli degli anni precedenti alla crisi solo dieci anni dopo il Centro-Nord. Tutto bene? Direi per niente. Lo scorso anno aveva evidenziato la cosiddetta “resilienza” del Sud, mostrando come, nonostante anni di politiche del disimpegno al Sud, appena arrivi qualche investimento la sua economia riesce a rimettersi in cammino. Trascinando tutto il paese con sé. Cosa alquanto lapalissiana, visto che il Sud è un grande mercato di sbocco interno per le aziende del Nord.
Dalle anticipazioni del Rapporto Svimez: “Per quanto riguarda i settori, l’elemento maggiormente positivo del 2016 è senza dubbio la ripartenza del settore industriale meridionale: del resto, pensare di affidare la ripresa di un processo di sviluppo del Sud, come avvenuto nel 2015, all’agricoltura e al turismo – che pure presentano nell’area, specialmente in una “logica industriale”, ancora ampie potenzialità inespresse – è alquanto illusorio”. Secondo Svimez “una leva di forte attrazione di investimenti esterni” potrebbe esser rappresentata dalle Zone economiche speciali.
Nel frattempo, i numeri restano impietosi, a dispetto delle edulcorazioni istituzionali e mediatiche: gli occupati sono 380mila in meno rispetto al 2008, ossia inizio crisi. Resta forte l’estromissione dei giovani dall’occupazione, favorita dal fatto che siamo un paese in cui i lavoratori anziani sono ipertutelati e i giovani sono esclusi da ogni forma di tutela. Un mondo che chi scrive conosce fin troppo bene, fatto di dualismi ripugnanti che stanno facendo soccombere le nuove generazioni e tolgono fiato al paese tutto. In una nazione seria sarebbe uno “scandalo” che i padri tolgano il futuro ai figli. Non in questo.
Un articolo molto interessante di Salvatore Settis su Il Fatto Quotidiano del 30 luglio riporta due dati importantissimi: secondo la relazione annuale dell’Agenzia per la Coesione territoriale, il più grande disinvestimento nazionale negli anni 2000 nel nostro paese sarebbe quello nella cultura. Il modo migliore per migliorare il paese in termini di capitale sociale e fronteggiare l’espansione delle mafie, no? Più di noi investono quasi tutti i paesi europei.
Settis ci spiega anche che il problema non è solo limitato agli investimenti in cultura: il divario ormai radicato riguarda la “disparità strutturale di dotazioni effettive e servizi nel Mezzogiorno: i treni sono più vecchi e più lenti, la rete ad alta velocità costituisce solo il 5.6% della rete complessiva, […] la distribuzione dell’acqua è irregolare per il 18.3 % della famiglie a fronte del 4.9% del Centro-Nord, i Comuni che dispongono di strutture per l’infanzia sono meno della metà che nel Centro-Nord”. Con questa arretratezza di contesto, scriveva giorni fa il Prof. Gianfranco Viesti, si rischia concretamente di vanificare anche i provvedimenti presi nell’ambito del Decreto Mezzogiorno.
La nostra Costituzione, lo ricordiamo, all’articolo 3 impone questo: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Cosa dovrebbe fare la politica, per rimuovere questi ostacoli dello scandalo? La risposta ovvia fa riscontro a questa dura realtà fattuale: “Ancor più drammatico è il generale declino di ogni investimento nel Mezzogiorno, qui analizzato nella sequenza cronologica 1951-2015. I dati di spesa non lasciano spazio al dubbio: dallo 0.68% del Pil nel decennio 1951-60 si passa allo 0.85% negli anni Settanta, fino al crollo nel quinquennio 2011-2015, quando gli investimenti calano allo 0.15%”. Arrivando a toccare il fondo con lo 0.1%. Questo si chiama disimpegno.
E le disuguaglianze? E la Costituzione?