Tutto è iniziato su Facebook, nel gruppo “Trasparenza siti web pubblica amministrazione”, fondato da Laura Strano, al quale hanno aderito tanti cittadini (tra cui il sottoscritto) che a vario titolo sono impegnati nel promuovere il rispetto delle norme sulla trasparenza amministrativa, in primis quelle derivanti dal cosiddetto Decreto Trasparenza (D.Lgs. 33/2013).
Il fatto in breve: la ricorrente, Minni Pace – che ha avviato l’iniziativa insieme a tanti altri cittadini del gruppo (anche attraverso una raccolta fondi per la partecipazione alle spese, per nulla irrisorie, richieste per l’accesso alla giustizia amministrativa) – aveva presentato ricorso al Tar impugnando il silenzio del ministero della Giustizia, seguito alla sua istanza di accesso civico presentata per ottenere dal ministero inadempiente (e illegittimamente silente) la pubblicazione in formato aperto, come la normativa prevede, delle tabelle relative all’albo degli amministratori giudiziari, secondo modalità idonee alla indicizzazione, alla rintracciabilità tramite motori di ricerca web e al riutilizzo.
Com’è andata a finire? La sezione I del Tar del Lazio, con la sentenza del 28 luglio 2017 n. 9076, ha riconosciuto da parte del ministero della Giustizia l’inadempimento agli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, condannandolo a riscontrare l’istanza di accesso e/o a provvedere alla pubblicazione dell’albo degli amministratori giudiziari entro 30 giorni dalla notifica della sentenza.
Seppur questa vicenda ricordi per certi versi la vittoria di Davide contro Golia, rimane latente lo sconforto per il paradosso che vede proprio il ministero della Giustizia violare le norme sulla trasparenza, nonostante la recente introduzione del Freedom of information act (Foia), oggetto di una campagna di promozione istituzionale da parte del governo che può vantare ben pochi precedenti, e che invece è stata aspramente criticata da associazioni di cittadini e esperti, proprio perché di fatto ha “burocratizzato” la trasparenza.
Inoltre, al di là dei propagandistici slogan istituzionali che hanno presentato come “rivoluzionario” il cosiddetto Foia (contenuto nel D. Lgs. 97/2016 che ha modificato il decreto trasparenza e che ad oggi, purtroppo, non ha prodotto risultati soddisfacenti), non si possono sottovalutare gli aspetti economici che invece finiscono con il limitare fortemente le concrete possibilità dei cittadini di vedere riconosciuto il loro diritto a ricevere informazioni dettagliate e trasparenti sulla gestione della cosa pubblica (e in fin dei conti, soprattutto, dei soldi pubblici).
Tra l’altro, l’autorità deputata a vigilare, l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), era destinataria (per conoscenza) dell’istanza di accesso, ma non ha ritenuto doveroso intervenire durante l’intera vicenda (anche per motivi procedurali che le impediscono di attivarsi su casi così specifici) dimostrando ancora una volta la differenza – che pagano troppe volte i cittadini – tra idea e azione.
Occorre considerare che non è facile esperire azioni a tutela dei diritti all’informazione e alla trasparenza dell’agire amministrativo, nonostante siano diritti della collettività. I costi di un giudizio innanzi al Tar, infatti, rimangono elevati anche per far valere innanzi al giudice tali fondamentali diritti (non essendo previste nella norma esenzioni o riduzioni del contributo unificato, ad esempio).
Oltre a tale aspetto, la complessità e la scarsa chiarezza dell’attuale normativa (come modificata con l’introduzione del Foia) finiscono con il disorientare non solo i cittadini, ma talvolta confondono anche gli stessi giudici che, come in questo caso, decidono di compensare le spese di giudizio, considerata la novità e delicatezza della questione. Anche questo rappresenta di fatto un deterrente di natura economica per l’esercizio del diritto alla trasparenza e all’informazione sull’operato della pubblica amministrazione.
Fino ad arrivare agli estremi paradossi, come accaduto in un’altra recente sentenza del 29 giugno 2017 del Tar Veneto, con la quale il ricorso di un cittadino contro il silenzio della pubblica amministrazione alla sua istanza di accesso civico, presentato ai sensi del Foia, non solo venga rigettato, ma lo stesso ricorrente venga condannato al pagamento delle spese di lite per un cavillo interpretativo della norma, ossia perché il cittadino non aveva richiesto specificamente anche i documenti in questione.
Di fronte a questi esiti giudiziari, emerge chiaramente come la società civile si stia ponendo in prima linea per far valere il diritto a un’effettiva trasparenza amministrativa, ma al contempo non si possono non rilevare le stravaganze del nostro Paese dove accade persino che a violare la “Trasparenza” sia proprio la “Giustizia”, mentre chi dovrebbe vigilare non può intervenire, ma resta a guardare.
È vero. Oggi Davide ha battuto Golia. Ma la strada per un effettivo diritto alla trasparenza dell’amministrazione pubblica sembra ancora lunga e impervia. Tuttavia agendo insieme si può piegare persino l’acciaio della burocrazia. Del resto, diceva Confucio: “Spezzasi l’acciaio, per duro che sia; ciò che pare il più solidamente stabilito, sovente torna più facile a distruggere”.
Aggiornato alle ore 12,30 del 1 agosto 2017