A dieci anni dalla scomparsa del cineasta svedese – 30 luglio 2017 – il salvagente lo lancia la pagina culturale del network britannico attraverso le parole e le riflessioni del giornalista e scrittore Benjamin Ramm
Ingmar Bergman non era un regista cupo e pessimista, ma un artista di grande umanità e profonda empatia. A dieci anni dalla scomparsa del cineasta svedese – 30 luglio 2017 – il salvagente lo lancia la pagina culturale della BBC. Il ribaltamento dello stereotipo a cui decenni di cineforum ci hanno abituati, quella di un Bergman irrigidito nella sua tetra etica protestante, lo attua Benjamin Ramm, giornalista e scrittore. “I necrologi di un decennio sono stati prevedibili cliché: i film di Bergman vennero ricordati come ‘macabri’ e ‘crudeli’, o definiti ‘una lunga e oscura notte lunga dell’anima’. Eppure il tema primario del lavoro di Bergman, il filo che collega tutti i suoi film insieme attraverso i generi toccati, non è la morte, ma la possibilità redentrice dell’amore – spiega Ramm –. Le sue visioni più brillanti non riguardano la mortalità, ma l’isolamento e il rifiuto, in particolare l’amore non corrisposto”. “A volte le caricature sono state completamente fuorvianti”, continua il critico inglese.
“L’inesorabile inquietudine di Bergman è stata definita come ‘cerebrale’, suggerendo un’astratta altezzosità dietro i suoi film quando in realtà il suo lavoro è intensamente viscerale. Bergman è classificato come ‘austero’, nonostante la sua giocosità esemplificata in un film come Sorrisi di una notte d’estate (1955), o la sensualità di molte delle sue opere chiave si evinca da Persona (1966) e Sussurri e grida (1972)”. Secondo il giornalista inglese in oltre 60 film da regista durante 60 anni di carriera, Bergman ha classificato il “tormentato costo di quella che lui definitiva ‘povertà emotiva’”. Del resto il drammaturgo nato a Uppsala il 14 luglio 1918 ebbe cinque mogli e nove figli, filtrando in continuazione quell’intima e personalissima insicurezza degli affetti all’interno di ogni stralcio di pellicola.
“Bergman era scettico rispetto l’accettazione del cosiddetto ‘amore libero’, anche se i suoi film furono tra i primi a presentare una scena di nudo (Monica e il desiderio, 1953 ndr) per lui il sesso senza amore era un atto senza senso. Si veda Il Silenzio (1963) dove lussuria e e solitudine sono inestricabilmente legati”. Nell’articolo della BBC viene infine ricordata anche la scarsa fiducia nel matrimonio da parte del nostro. “Tra l’altro fra le sue 170 produzioni teatrali, Bergman ha spesso diretto l’opera di Strindberg e ha condiviso il disagio del suo compatriota: per Strindberg ‘matrimonio’ in svedese significa sia ‘dono’ che ‘veleno’. Nelle sequenze strazianti da Scene di un matrimonio (1973), Bergman mostra come l’istituzione matrimonio soffochi l’amore”.
Nella brillante, articolata e lunga analisi di Ramm vengono toccate anche altre topiche del cinema bergmaniano (tra gli altri l’uso degli specchi per i volti femminili elogiato da Truffaut, il ruolo della morte ne Il Settimo sigillo e il rapporto con i genitori ne Il posto delle fragole) per avvalorare la tesi di partenza. Tra queste c’è spazio anche per la citazione di un bergmaniano doc come Woody Allen che all’incirca attorno al 1992 ha abbandonato sulla falsariga del maestro svedese ogni necessaria, impellente, finanche comica, introspezione per farla diventare opera d’arte per abbracciare una più banale serialità alimentare. Allen diceva: “Bergman è probabilmente il più grande artista cinematografico dall’invenzione della cinepresa”. Impossibile dargli torto… o no?