Giovanni Scarascia, 33 anni, dopo la laurea in Psicologia Clinico-Dinamica a Padova ha scelto un master a Buenos Aires. “Non ci ho nemmeno provato a cercare lavoro in Italia, non c’era spazio per me". Poi ha scelto di andare a Bella, dove lavora con i giovani figli dei conflitti armati, con alle spalle esperienze di spaccio, microcriminalità o prostituzione minorile. "Un modello che potrebbe funzionare anche nelle nostre periferie"
Della diversità Giovanni Scarascia ha fatto una sfida: “Io sono un cultore delle differenze, invece la società occidentale continua a dipingerle come il male assoluto”. Nato a Tricase, Lecce, 33 anni fa, si è laureato in Psicologia Clinico-Dinamica a Padova. Dopo un periodo trascorso a Bologna per fare la pratica per l’esame di Stato, ha deciso di fare i bagagli: “Non ci ho nemmeno provato a cercare lavoro in Italia, sentivo che non c’era spazio per me e per la mia voglia di esplorare – racconta –, e poi non mi andava giù l’idea che non fosse data ai giovani l’opportunità per cambiare il mondo in cui viviamo”. Un dato di fatto, questo, che al Sud diventa ancora più tangibile: “In un paese come quello in cui sono nato c’è una mentalità antiquata – spiega -, credono ancora che chi va dallo psicologo sia pazzo”.
Giovanni, poi, non aspirava a fare terapia, ma voleva creare degli strumenti che potessero aiutare un numero ampio di persone: “Un’ambizione troppo grande per essere realizzata in Italia”, ammette. La prima tappa all’estero è stata Barcellona, dove ha trovato un impiego come cameriere: “Guadagnavo bene, ma sapevo che quella non era la mia vita”, ricorda. Poi, nel 2012, s’imbatte in un un master in Mediazione e Risoluzione dei conflitti a Buenos Aires. Zaino in spalla, Giovanni si trasferisce nella capitale argentina, avviando anche una collaborazione con uno studio giuridico: “Ho lavorato con un’avvocatessa che mi ha insegnato moltissimo – ricorda -, insieme abbiamo fatto più di 500 mediazioni, occupandoci anche di cause penali, cosa impensabile in Italia”.
Di Buenos Aires conserva un ottimo ricordo (“è una città piena di contraddizioni, un misto tra Milano e Napoli”, sottolinea), ma una volta terminato il master ha capito che la Colombia era il posto giusto per mettersi alla prova. La sua destinazione è Bello, città di 500mila abitanti, dove inizia fin da subito a seguire svariati progetti: “Io e la mia equipe abbiamo portato la scuola dove non arrivava o a chi non riusciva ad accedervi – spiega -, in particolar modo ci siamo dedicati a quei ragazzi respinti dagli istituti perché considerati troppo grandi di età e particolarmente difficili da gestire”. Molti di loro sono figli dei conflitti armati, con alle spalle esperienze di spaccio, microcriminalità o prostituzione minorile.
Per dare loro un aiuto concreto, Giovanni ha messo a punto con i suoi colleghi della Segreteria Educativa la MEFES (Metodologia Flexible Extredad Segundaria): “Si tratta di un modello educativo d’inclusione dei giovani più svantaggiati – spiega -, da una parte lavoriamo con la filosofia dell’amore e dell’affetto, dall’altra cerchiamo di imporgli un modello di autorità sana, che possano rispettare e a cui possano ispirarsi in futuro”.
Quelli che per la società erano considerati cause perse, per Giovanni si stanno trasformando in una scommessa vinta: “Questi ragazzi sono il risultato dell’ambiente in cui hanno vissuto fino a ieri – ammette -, noi gli tendiamo la mano e gli permettiamo di esplorare i loro talenti, in modo che un giorno possano trovare un posto nel mondo”. La chiave di tutto è la fiducia: “Io non li giudico mai, qualunque cosa abbiano fatto – spiega -, cerco di abbattere quell’armatura che si portano dietro e di fargli capire che gli errori fanno parte della crescita, l’importante è aspirare a diventare degli individui migliori”.
Il progetto – che oggi coinvolge più di 800 ragazzi – si è diffuso a macchia d’olio e ha destato l’attenzione delle autorità: “Riceviamo il sostegno dell’amministrazione locale e anche il ministero dell’Istruzione si è interessato a quello che facciamo – sottolinea -, ora l’obiettivo è aprire delle classi MEFES in ogni scuola della città”. Quest’esperienza, poi, l’ha messo a stretto contatto con la popolazione locale: “Ho avuto la fortuna di conoscere tutti gli angoli di questa città, anche quelli in cui si arriva solo a piedi e con stivali di gomma – sottolinea -, ma quando hanno capito che ero lì per aiutarli mi hanno sempre trattato bene”.
Il calore con cui il progetto è stato accolto gli ha dato molta fiducia: “È meraviglioso avere un impatto così importante sulla vita delle persone – ammette -, senza contare che in Italia non godrei mai delle condizioni economiche che ho trovato qui”. Ma Giovanni non ha dimenticato il nostro Paese, anzi: “Sono convinto che questo modello, con i dovuti aggiustamenti, potrebbe essere applicato anche nelle nostre periferie, dove il problema dell’immigrazione viene gestito malissimo”, sottolinea. Sul futuro, infatti, ha le idee molto chiare: “Quando avrò raggiunto una posizione che mi permetterà di dialogare con le istituzioni, tornerò in Italia – conclude – e a quel punto spero che qualcuno abbia il coraggio di ascoltarmi”.