di Maurizio Ambrosini (Fonte: lavoce.info)

Le ragioni dell’operazione in acque libiche

Dopo settimane di sussurri e ipotesi, quasi a sorpresa e in gran fretta, l’Italia sta varando una missione militare in acque libiche, navale e non solo. Forse ha giocato la competizione con l’attivismo di Emmanuel Macron, forse la percezione ormai diffusa che l’accoglienza dei rifugiati possa compromettere le sorti elettorali dei partiti di governo. Sta di fatto che dopo il decreto Minniti-Orlando, il rinvio del provvedimento sul cosiddetto Ius soli, il codice di condotta imposto alle Ong con il duplice intento di metterle sotto controllo e di rallentare le operazioni di salvataggio, ora si pensa di usare le maniere forti contro le imbarcazioni che trasportano le persone in cerca di asilo.

Va notato anzitutto un cambiamento di rappresentazione e di retorica: fino a qualche settimana fa, le barche degli scafisti erano a malapena in grado di galleggiare e le Ong erano accusate di arrivare troppo vicino alle coste libiche per soccorrerle. Ora invece vengono presentate come vascelli armati che non esitano a sparare contro le motovedette libiche. Quindi occorre andare in loro soccorso.

Si è aperto però uno spinoso problema, quello di non urtare la suscettibilità dei libici e di non esporsi all’accusa di violare la loro sovranità. Il governo (ministero della Difesa) ha precisato che i migranti verranno presi in consegna dalle forze libiche e da esse ricondotti indietro. Con formula che un tempo sarebbe stata definita “gesuitica”, si aggiunge che in tal modo non si tratterebbe di un respingimento. Traspare in sottofondo l’intento di prevenire le obiezioni dell’Alta Corte di Strasburgo, quella che ha condannato l’Italia per i tristemente noti respingimenti in mare del governo Berlusconi-Maroni – la prima volta nella storia in cui il nostro paese si è messo contro l’Onu, oltre che contro le istituzioni europee.

Le incognite della missione

La prevista presa in consegna da parte dei libici (chiamiamola pure così, con eufemismo) riapre una questione di grande portata sotto il profilo dei diritti umani. Il nostro governo ha già annunciato che le domande di asilo dovrebbero essere verificate in Libia, presso hotspot gestiti da organismi sovranazionali specializzati (Unhcr – Alto commissariato Onu per i rifugiati e Oim – Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ma una simile operazione comporta diverse incognite.

La prima riguarda il trattamento da parte delle forze armate libiche prima della consegna agli hotspot. Le testimonianze dei maltrattamenti inflitti a migranti e rifugiati in transito, e anche a quelli ricondotti in Libia, sono troppo note, drammatiche e numerose per non mettere in allarme quanti si interrogano sulla tutela dei diritti umani.

La seconda incognita riguarda il funzionamento degli hotspot, ancora da progettare, realizzare, dotare di personale. Non sono strutture in grado di entrare a regime nel giro di pochi giorni. È in questione poi il rispetto dei diritti dei richiedenti di asilo, compreso quello di appello a seguito di un eventuale diniego. Non si vede come possano provvedere strutture di emergenza come gli hotspot, che tipo di assistenza legale e psicologica possano offrire a persone spesso traumatizzate. Distinguere tra richieste di asilo fondate o meno, quando si tratta dell’Africa, non è operazione né facile né sbrigativa, anche limitandosi ad applicare i nostri criteri, secondo i quali, per esempio, la Nigeria è un paese sicuro e Boko Haram un problema interno, non meritevole di tutela internazionale.

Una terza questione riguarda il delicato rapporto tra i servizi istituiti presso gli hotspot e quelli a disposizione della popolazione libica, per esempio la sanità. Se i servizi saranno scadenti, si ricadrà nei dubbi sulla violazione dei diritti umani. Se verranno portati a standard occidentali, provocheranno risentimento presso la popolazione locale che non ne potrà fruire.

Un’ultima e forse più grave questione riguarda il destino dei richiedenti asilo denegati. Se non potranno venire in Europa, rimarranno in Libia. Bisogna domandarsi come verranno tutelati e chi se ne farà carico. L’idea sottostante, che la Libia li espellerà molto più facilmente di noi, è tutta da verificare, ma è anche purtroppo un’implicita ammissione che noi contiamo sui metodi spicci dei paesi eletti a nostre guardie di frontiera per mantenere formalmente pulite le nostre mani.

Il nostro governo ha dato un esempio di grande civiltà con le operazioni di salvataggio in mare e di successiva accoglienza, malgrado indifferenze, dubbi e opposizioni tanto all’interno quanto da parte di diversi partner europei. Non riuscendo più a far transitare i rifugiati al di là delle Alpi ha dovuto farsene carico (circa 180mila persone attualmente accolte, non un’enormità in confronto alla Germania, per non parlare di Turchia, Libano, Giordania). È inquietante che il problema passi ora sotto la gestione del ministero della Difesa e che ci si prepari all’uso delle navi da guerra non per soccorrere, ma per rimandare indietro le persone in cerca di asilo.

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