Cultura

Che fatica l’adolescenza, secondo Peter Cameron

Agosto, tempo di letture. I miei 25 lettori mi perdoneranno se oggi vi propongo in recensione un romanzo che ha già 10 anni e praticamente ha quasi i brufoli e va alle medie. Non proprio un’uscita recente, insomma, né nell’edizione originale, né nella subitanea edizione italiana. Si tratta però di un best-seller, di quelli che potete leggervi sotto l’ombrellone e ho pensato che come è sfuggito (mea culpa!) alla mia attenzione, magari è sfuggito anche ad altri, nonostante anche il bel film che ne ha tratto l’ottimo Roberto Faenza in tempi più recenti. Parliamo del libro di Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile (Adelphi, 2007, 10€), titolo preso dal celebre passo ovidiano citato in esergo: “Perfer et obdura! Dolor hic tibi proderit olim” – Sii paziente e tenace! Un giorno questo dolore ti sarà utile).

La copertina dell’edizione economica, del 2016

Questo romanzo ha avuto su di me lo stesso effetto che le statine possono avere sulle arterie di una persona con troppo colesterolo… un senso di ripulitura, di ritorno alla serenità. Vengo dalla lettura di un brutto romanzo italiano pubblicato da Mondadori in cui l’autore in nota finale si definisce “un artigiano della parola” e a cui mancava pressoché tutto quello che un lettore forte si attende da un bel romanzo. Qui ho invece ritrovato gli elementi giusti e necessari. Peter Cameron è un piccolo grande maestro della sua arte, e sa creare e raccontare personaggi meravigliosi, credibili, che proprio in virtù della loro potenza danno la stura all’immaginazione del lettore. Faccio solo un esempio per spiegarmi meglio, e prendo un personaggio apparentemente secondario nell’economia del romanzo, quello di Nanette, la nonna del protagonista James Sveck. Ecco come Cameron la descrive nella sua prima entrata in scena:

Dopo un po’ l’ho sentita scendere le scale: sono apparsi prima i piedi, poi le gambe e lentamente il resto del corpo. Mia nonna scende le scale sempre piano, girata di lato, la mano sulla ringhiera e i piedi paralleli ai gradini. Dice che una signora non dovrebbe mai scendere di fronte, se non vuole sembrare un toro alla carica. Mia nonna crede fermamente nel contegno: in lei è la cosa che più somigli a una religione. (75)

Ditemi se non la vedete nella vostra fantasia, ora. Ditemi se non ha i capelli bianchi o con una tinta indaco leggera. Ditemi se non l’avete vista con una donna al ginocchio marrone e una blusa a fiorellini coi bottoncini ben chiusi. Al di là della fantasia che ciascuno di noi ha di questa donna-nonna, c’è che il modo in cui Cameron descrive la di lei discesa dalla scala, ce la rende subito prossima, immaginabile, empatica. E’ questo che un bravo scrittore dovrebbe fare: raccontare i suoi personaggi attraverso dei loro comportamenti. Per meglio dire: mostrare comportamenti di personaggi da cui inferire descrizioni probabili e possibili. Non, dunque, dirci in modo esplicito cose materiali, ma portarci a immaginare. E’ il vecchio “Show, don’t tell” di anglosassone memoria.

L’altra grande bravura di Cameron in questo libro è sulla storia e sul protagonista. In poche parole: il romanzo di formazione di un adolescente disadattato. O se preferite: molto più disadattato della media degli adolescenti, uno che pondera per bene di non andare all’università, pur avendone tutte le possibilità sia intellettuali che materiali, perché terrorizzato dal trovarsi per vari anni in un ambiente pieno di… studenti universitari della sua età. Il tipo di horror stipati, direi (credo sia il contrario dell’horror vacui, ma si accettano correzioni) che lo atterrisce, contro il quale sembra proprio non poter andare.

L’intreccio del romanzo di Cameron è, in sé, non originalissimo: un adolescente disadattato, dicevamo, che ci racconta gran parte della sua vita attraverso dei meta-flashback (o meta-analessi, come dicono i critici colti) che in realtà sono il racconto che lui stesso fa, ob tortissimus collo, alla sua psicoterapeuta, a lui imposta dai genitori. Genitori americani ricchissimi, alto-borghesi e newyorkesi, naturalmente divorziati, e naturalmente alquanto impiastri, almeno nel loro ruolo genitoriale. Sì, qui c’è un po’ di puzza di stereotipo, va riconosciuto. Ricordiamoci però che Cameron è del 1959, il libro è del 2007 ed è ambientato nel 2003, James il protagonista nel 2003 ha 18 anni, per cui è nato nel 1985 e quindi abbiamo che l’autore prende di mira la sua stessa generazione di figli del baby boom, da Cameron valutata come colma di inettitudine e di egocentrismo, un vero fallimento quanto a capacità genitoriale. Una sorta di critica per interposta generazione, in questo non poi così banale.

La psicanalisi del figlio – godibilmente vivisezionata nel romanzo – pare ai genitori necessaria perché sembra loro impossibile capire cosa c’è che non va a un diciottenne al quale, secondo loro, l’acqua va per l’orto. Eppure James appare così triste, così inconcludente, così incerto sul da fare. Il ragazzo, d’altronde, ci mette del suo: amicizia, amore, coming out, bisogno di accettazione, affetto: nemmeno lui sa di preciso cosa sta cercando, mentre più o meno riesce a mantenersi in equilibro sopra alla sua para-follia. L’unico personaggio che sembra avere qualche aggancio più solido nei confronti di James, è appunto Nanette, la nonna. E allora non dico altro: la chiave del romanzo è nel rapporto fra James e il mondo esteriore, magari passando appunto per la nonna.

Lettura davvero godibile, un po’ per tutti, consigliatissima.