Nella piazzetta un bambino gioca con il triciclo. Un altro lo segue con una biciclettina. Un terzo li rincorrere in monopattino. Vengono da tre posti del mondo distanti migliaia di chilometri tra loro. In un angolo all’ombra, tre mamme li osservano: due hanno il velo, l’altra no. In fondo alla strada alcuni operai romeni bevono una birra di fronte a un alimentari del loro Paese, mentre il liberiano Tamimu è intento a cucire una gonna verde scuro nella sua sartoria. Dall’altro lato della via qualcuno mangia un kebap turco, la macelleria islamica è chiusa. Lavorano invece le due sciure del negozietto Bolle di Sapone. Accanto a loro un giovane cinese pulisce il pavimento della sua attività. Prima c’erano dei senegalesi, ora è in mano sua. In 500 metri di asfalto c’è tutta via Gorizia: una strada che racchiude il mondo. Qui vivono persone di più di 70 etnie diverse.
Video di Alessandro Sarcinelli
Siamo a Baranzate, il comune più multietnico d’Italia. Quasi 12mila abitanti, di cui un terzo proveniente da 77 Paesi stranieri, racchiusi tra cascinali ristrutturati e palazzoni costruiti troppo in fretta alla periferia nord-ovest di Milano. Via Gorizia è il fulcro di questo mondo in miniatura, punto d’arrivo dei lavoratori meridionali un tempo e di quelli stranieri oggi. Un piccolo quartiere forse ancora inconsapevole di essere il più grande laboratorio d’integrazione d’Italia. Lo sa bene il sindaco, Luca Mario Elia (Pd) che racconta: “Abbiamo già superato la fase dell’accoglienza, ora il nostro obiettivo è evitare quei fenomeni che si sono verificati a Molenbeek o nelle banlieue francesi“.
La concentrazione di stranieri può essere affascinante ma anche pericolosa: nessuno qui dice che l’integrazione è una roba facile e divertente. “In un quartiere come questo devi mettere in conto fatiche e tanti insuccessi“, spiega per esempio don Paolo Steffano, che dal 2004 con la Parrocchia Sant’Arialdo è diventato il primo motore dell’integrazione in via Gorizia. “Siamo una zona a rischio, certo. E cerchiamo semplicemente di condividere gioie e dolori della vita – racconta il prete – Così vogliamo che il rischio diventi essere tutti fratelli. I problemi, quelli ci saranno sempre. Ma esistono anche le cose belle”.
Per cominciare a vedere le “cose belle” basta tornare alla piazzetta dove giocano i tre bambini. Lì per esempio c’è La Bottega, un negozio che vende vestiti nuovi e di seconda mano, ma anche seggioloni per neonati e videogiochi. Un punto di ritrovo per le signore, dove possono spettegolare in santa pace. “D’inverno fa caldo e d’estate c’è l’aria condizionata” dice una di loro. E allora tutte dentro: ad accoglierle c’è Gabriela, romena e mamma di Lucia e Mario. Il negozio fa parte dell’iniziativa Fiori all’Occhiello, gestita dall’associazione La Rotonda, il braccio destro della Parrocchia. Una catena che parte dalla raccolta dei vestiti di seconda mano, fino alla produzione propria e alla vendita. Un’idea per dare lavoro a chi fatica a trovarlo.
All’inizio della via si trova la sartoria, dove dietro la macchina da cucire si dà da fare incessantemente un trio di donne: una senegalese, una marocchina e una boliviana. Poi ci sono anche Hassane e Hasan, nomi simili ma provenienze diverse: Bangladesh e Senegal. Quando li si vede arrivare insieme però sembrano Cip e Ciop, l’intesa è di acciaio. L’opera dell’associazione prevede anche aiuto alle donne e attività di studio per i più giovani: insieme al Comune e alla parrocchia organizza il doposcuola Braccio di ferro e Lascia o raddoppia. Aiuto nel fare i compiti ma soprattutto tanto gioco, come confessa la bimba in bicicletta quando gli adulti non la possono ascoltare.
Poco dopo la piazzetta al Gorizia Point c’è uno sportello di consulenza e si organizzano anche corsi di italiano. Fatto qualche passo si incontrano il Giardino Solidale, luogo di feste e compleanni, e Villa Lorena, una casa di accoglienza curata dagli stessi inquilini come fosse una reggia. “Vogliamo che tutti si sentano circondati da una rete di solidarietà che non li faccia sentire soli – spiega il sindaco Elia – Senza questa rete, i più giovani che sbattono contro la povertà si sentono rifiutati dalla nostra società e rischiano di finire nelle mire degli estremisti. Il terrorismo non deve essere legato alla mancata accoglienza. Bisogna far sì che un ragazzo nato qui da una famiglia straniera veda Baranzate e l’Italia come il suo Paese, che non si senta escluso“.
La discussione sullo ius soli e sulla cittadinanza c’entra, ma fino a un certo punto. “I miei due bambini sono nati in Italia, vedo che hanno un’identità confusa – confessa Maja, originaria del Montenegro e venuta a Baranzate per amore nel 2009 – sulla carta sono serbo-montenegrini, ma in realtà l’unica lingua che conoscono è l’italiano”. Ma quello che più conta è sentirsi accettati, spiega la donna, e non dover subire frasi come “non vali niente perché sei straniera”, anche se in realtà hai una laurea in Lingue e qui in Italia hai trovato impiego nell’associazione solo perché mentre provavi a fare un altro lavoro ti dicevano “tornatene nel tuo Paese”.
“Sono i fatti quelli che contano”, conferma anche Bogdan, per tutti Bobo. In Romania ha fatto il vigile del fuoco per 7 anni, qui in Italia non può perché non ha la cittadinanza. Può sembrare assurdo, ma non per lui: “Se io o i miei due figli non possiamo essere italiani, a me va bene. Se non si può, non si può”. Il suo rispetto delle regole è più forte anche dei sogni o, come dice lui, “delle chiacchiere della politica”. “Non sapete invece – racconta – quanto può essere importante anche un piccolo gesto, come quello che ha fatto la Parrocchia dando un’occupazione a mia moglie da quel momento in poi ci siamo veramente sentiti a casa”.
Bobo ha quasi gli occhi lucidi quando racconta della festa organizzata nel quartiere dalla comunità romena: “Abbiamo mostrato le nostre tradizioni, il nostro cibo. E mi sono emozionato a vedere l’entusiasmo degli italiani che hanno partecipato”. L’iniziativa si chiama Il Mondo nel quartiere ed è un’altra idea della parrocchia di Don Paolo. Oltre a quella della Romania, da cui provengono 417 abitanti di Baranzate, ci sono state quest’anno anche le feste dello Sri Lanka (è la comunità più numerosa, 463 abitanti), del Senegal (265) e di molti altri Paesi, come l’Ucraina. D’altronde i cinesi sono in 462, gli egiziani 383, ma poi ci sono anche 320 ecuadoregni e 260 peruviani, numerosi quanti albanesi e marocchini. Ogni sabato hanno potuto presentare cibo, musica e cultura del loro Paese, oppure conoscere quella degli altri.
“Ogni etnia deve diventare protagonista del quartiere, non devono essere solo coloro che ricevono aiuto e attenzioni”, spiega Don Paolo. “Così hanno la possibilità di custodire la loro identità, ma allo stesso tempo imparare a vivere in Italia. Questo è il grande obiettivo, perché l’Italia deve essere la loro casa”. Per molti la casa è diventata la parrocchia, dove il prete accoglie tutti. I primi ad arrivare furono i cristiani copti o ortodossi, ma ora quando finisce di dire messa ed esce in giardino don Paolo incontra anche i musulmani che dopo il tramonto festeggiano il Ramadan. E durante le ore di oratorio i bambini fanno la loro preghiera accanto a quella cristiana. Il parco dell’oratorio è forse il luogo dove il vivere insieme si compie con maggior successo.
I bambini di Baranzate sono abituati alla diversità. Per loro è la normalità anche a scuola: nel Comune c’è un istituto che comprende scuola media, scuola elementare e due scuole dell’infanzia, in cui il 60 per cento degli alunni è straniero. “Le difficoltà sono tra gli adulti, che devono affrontare le problematiche di tutti i giorni”, spiega una signora che a Baranzate vive da 40 anni. Quando parlano gli italiani, l’insofferenza emerge tutta: “Si stava meglio prima – dicono in molti – Gli stranieri non pagano le spese condominiali, non fanno la raccolta differenziata”. Problemi concreti, dovuti soprattutto alla densità abitativa: “In alcuni palazzi lo scorso inverno hanno staccato il riscaldamento, perché alcune famiglie non pagavano le bollette”.
Baranzate è abituato da sempre all’accoglienza. Negli anni Sessanta arrivavano dal Sud e furono proprio i meridionali a popolare per primi via Gorizia. Allora dovettero combattere con gli stessi pregiudizi che gravano oggi sugli stranieri. “Chi riesce a capirlo, comincia a muovere passi verso di loro”, assicura don Paolo. E così capita che italiani e stranieri si coalizzino, per esempio per protestare contro il campo rom di via Monte Bisbino, alle porte del paese. “La scorsa estate ci sono stati tantissimi furti nelle case, ma alcuni li abbiamo beccati”, dice un cingalese. Un altro modo – diciamo così – per “sentirsi baranzatesi”.
Come Maja, diventata esempio di immigrata attiva: “Anni fa mi è stata data una mano, ora sono io ad aiutare chi arriva tramite l’associazione”. O come le associazioni Jappo (senegalese) e Shukran (somala) che aiutano i connazionali nei rapporti con le istituzioni, ma offrono anche consulenza alle altre comunità per seguire il loro esempio. Senza nascondere povertà, incomprensioni, litigi e intolleranza, a Baranzate la gente prova semplicemente a vivere gomito a gomito: “Nel mio condominio, se a qualcuno manca il pane, qualcun altro sta facendo le scale per portarglielo”, racconta Alessandro, operaio albanese. “Sentirsi a casa nel proprio condominio è qualcosa di difficile”, conclude Don Paolo, “ma accanto alle fatiche si vivono anche esperienze bellissime”. Come gli disse un giorno una signora: “Io da giovane volevo girare il mondo, poi il mondo è venuto nel mio condominio”.
A sentire gli stranieri i baranzatesi non sono razzisti. “Il partito dei lamenti è il più grande partito italiano”, commenta ironicamente Don Paolo. “Gli slogan contro gli stranieri attecchiscono anche qui. La gente deve stare sul pezzo e seguire la moda, ma poi le loro azioni non corrispondono a quello che dicono”, sostiene il parroco. In effetti la strada sembra confermare la sua teoria: al bar del quartiere alcuni italiani dicono di non poterne più di tutti questi arrivi, di “sentirsi stranieri a casa loro”. Ma poi scopriamo che stanno bevendo una birra con un albanese, un serbo e un romeno: “Che c’è di strano? Per noi è un piacere”.