Francia, Italia, Spagna, Germania, Grecia: appena arriva al governo, la sinistra europea adotta politiche neoliberiste di destra. Crescono diseguaglianze, povertà, disoccupazione, insicurezza, debiti. La base, tradita, smette di votare (o vota la protesta anti-sistema), spingendo vieppiù i partiti “di sinistra” a competere “al centro”. La causa sembra essere un misterioso elefante (Questi avvenimenti sono stati narrati nel post Le false partenze della sinistra/1).
Chi è l’elefante? La globalizzazione, “G”, scrivono molti lettori, è la causa principale dello sconvolgimento attuale. C’è consenso sul fatto che – crescendo le disuguaglianze – le ragioni della sinistra socialista europea sono oggi più forti di 30 o 40 anni fa. Ma purtroppo, la guerra commerciale globale obbligherebbe le imprese a ridurre i salari o a delocalizzare. Alcuni vorrebbero contrastare la presunta spinta al ribasso (su salari, welfare, diritti) di “G” con la politica, ma lo ritengono impossibile, perché il campo di gioco dell’economia (delle multinazionali) è ormai il mercato mondiale, mentre gli Stati hanno un campo d’azione ridotto. Perciò, vagheggiano la nascita di grandi Stati, pena la definitiva scomparsa della sinistra. Altri infine vorrebbero domare “G” con l’astuzia della conoscenza, ma denunciano l’assenza di un armamentario teorico moderno per poter rovesciare le sorti del confronto; invocano la nascita di una “vera” nuova scienza economica alternativa al liberismo – come a suo tempo lo furono il marxismo e il keynesismo – poiché al momento contributi pur brillanti come quelli di Piketty e Rifkin non sono ancora confluiti in un tal nuovo sistema.
Vera o falsa, la tesi per cui “La globalizzazione paralizza la sinistra” è pericolosissima, perché ha come corollario: “Uccidiamo la globalizzazione”; ponendo la sinistra contro la modernità, la libertà, l’economia di mercato. Ma, intanto, per sopravvivere bisogna accettare che “tutti i diritti che abbiamo conquistato, ai nuovi, in nome di un mercato globale spietato, saranno tolti”. Musica per le destre e le élite, comoda giustificazione per le sinistre che si snaturano. È quindi importante appurare se è vera.
Ultimamente, la globalizzazione è un po’ appannata, ma sta sempre lì.
Per fortuna, la tesi sopra illustrata è una leggenda metropolitana. La globalizzazione non impedisce minimamente alla sinistra di perseguire gli antichi ideali. Anzi, le facilita il compito. Ne consegue che la dimensione degli Stati non c’entra nulla con la possibilità di garantire diritti, salari equi, welfare. Quanto alla teoria economica, Rifkin e Picketty studiano problemi microeconomici o di equilibrio parziale, mentre la questione che stiamo analizzando è macroeconomica e di equilibrio generale. Esiste una teoria economica moderna che conferma quanto asserisco? Sì, è prevalente nei manuali, si chiama post-keynesiana. L’errore è pensare al Keynesismo come a un’analisi dell’economia che si è fermata al 1936: in realtà ha continuato a svilupparsi (per esempio con Stiglitz, Krugman, tutti i consiglieri di Obama, gli attuali presidenti della Federal reserve, Bank of Japan, Bank of China) anche se è stata bandita dall’eurozona. La spiegazione l’ho data in un vecchio post, che qui riassumo.
Nella competizione commerciale globale non conta se i salari cinesi siano 10 o 30 volte più bassi dei nostri, conta invece il costo (del lavoro) per unità di prodotto (Clup). Se l’operaio cinese viene pagato dieci dollari al giorno e l’italiano 100 dollari, ma il cinese produce un solo paio di scarpe al giorno (costo al paio: 10$ + materiali), mentre un operaio italiano produce 25 identiche paia di scarpe al giorno (costo al paio: 100/25= 4$ + materiali), le scarpe italiane sono più competitive. Il punto difficile da afferrare è che nell’economia globale i Clup sono sempre simili nelle diverse aree del mondo. Pertanto, l’ossessione per la “competitività” – giusta a livello d’impresa – è infondata (salvo in particolari condizioni cicliche) a livello macro globale. Difatti, alcuni “meccanismi automatici” dell’economia – più o meno velocemente – erodono i divari di competitività quando si formano.
Il meccanismo più efficace sono i cambi. Se per esempio Trump abolisse le norme di sicurezza sul lavoro e ambientali, e dimezzasse i salari americani, i prezzi in Usa scenderebbero e gli Usa diventerebbero iper-competitivi. In molti compreremmo un biglietto low cost per New York (per fare incetta); le nostre importazioni salirebbero, le vendite delle nostre imprese crollerebbero. Ma c’è un “ma”. Prima di prendere l’aereo, passeremo in banca a comprare i dollari necessari per gli acquisti a New York. Facendolo in tanti, il dollaro comincerebbe a salire, salire, fino a quando? Fino a quando il divario di competitività sarebbe eliminato (c’è da considerare che i cambi oscillano, ma è un’altra questione). Più ampio il divario competitivo, più forte la reazione contraria che si scatena. (Dazi = effetti simili).
Quando il dollaro raggiungerà il suo nuovo equilibrio, lascerà alcuni settori (imprese) Usa più competitivi dei nostri, ma altrettanti settori (imprese) dove noi siamo più competitivi: solo così acquisti e vendite di dollari si riequilibrano. (Non ripeto la dimostrazione per gli investimenti esteri). Ergo, nella globalizzazione, un paese può fissare i suoi diritti sociali in modo autonomo.
La regolamentazione (ad esempio sulla sicurezza sul lavoro) alza i costi delle imprese: ciò riduce produzione e redditi? Sì, ma questo costo non viene dalla globalizzazione: è la quota di valore aggiunto usata per “pagare” gli standard di sicurezza, che non può essere distribuito in salari e profitti. La parte più difficile da spiegare ( più facile con la matematica) è che la globalizzazione non solo non causa, ma addirittura riduce questo costo. La regolamentazione incide sempre più su un settore (B) e meno su un altro (A). Se inizialmente la produzione nazionale (numero di pezzi) è come illustrato di seguito:
A=100 B=100 TOT =200 (disponibili per il consumo, economia chiusa)
E dopo la regolamentazione di B si ha:
A=110 B=30 TOT=140 (disponibile per il consumo, economia chiusa)
Con la globalizzazione, hp di prezzo estero e costi di trasporto normali, si avrà:
A=150 di cui 40 export
B= 60 di cui 30 import
Totale disponibile per il consumo: A=110 B=60 TOT=170 >140
Ma è proprio vero che la “competitività” a livello di paesi nel lungo termine non è una questione seria, bensì un’allucinazione collettiva? Esistono riscontri? Sì, e sono decisivi: le bilance commerciali (il vero indicatore della competitività). I paesi a basso costo del lavoro non hanno una particolare tendenza a essere in surplus commerciale, e viceversa.
Riuscirà la sinistra a (evitare ancora di) scoprire chi è l’elefante? Lo saprete leggendo la prossima puntata.