Avevano provato ad ammazzarlo almeno altre due volte, Mario Luciano Romito, il 50enne presunto boss della mafia garganica, ammazzato nella strage consumatasi nelle campagne tra San Marco in Lamis e Apricena. Hanno atteso che uscisse dal carcere e ci hanno riprovato. Era ancora sorvegliato speciale, dopo aver ritrovato la libertà sei giorni fa, quello che è ritenuto dagli investigatori il capo dell’omonimo clan, contrapposto da trent’anni a quello dei Libergolis di Monte Sant’Angelo. Questa volta non hanno fallito, i sicari. E assieme a lui hanno ucciso il cognato e due contadini incensurati, colpevoli probabilmente di aver assistito all’agguato.
Già nel 2009 Romito era entrato nel mirino dei killer. L’episodio più eclatante è quello del 18 settembre: Romito era uscito illeso da un attentato dinamitardo mentre si stava recando, in compagnia del fratello Ivan, alla caserma dei carabinieri dove aveva l’obbligo di firma. Il cofano dell’Audi A4 Station Wagon sulla quale viaggiavano i due saltò in aria a causa di una bomba. Ma il tentativo dei killer fallì.
Era uno dei regolamenti di conti della famiglia Libergolis. Una faida aperta e sanguinosa iniziata dopo la sentenza di primo grado del secondo maxiprocesso alla mafia garganica (sentenza del 7 marzo 2009): poco più di un mese dopo, il 21 aprile 2009, Franco Romito, fratello di Mario Luciano, venne ucciso insieme al suo autista. Non sapevano, i Libergolis, antichi alleati, quello che saltò fuori dagli atti giudiziari: per anni Franco Romito aveva svolto un ruolo di confidente dei carabinieri e aveva persino partecipato con gli uomini dell’Arma a posti di blocco per riconoscere alcuni latitanti della mafia garganica.
Solo una decina di mesi prima di essere ucciso Romito era stato assolto da accuse pesanti: associazione mafiosa, traffico di droga, duplice omicidio perché era emersa la sua collaborazione con i carabinieri a varie operazioni tra le quali una trappola tesa nella sua masseria di Manfredonia – nella quale aveva fatto piazzare microspie agli investigatori – per far confessare omicidi ed estorsioni ai boss dei clan rivali dei Libergolis e Lombardi.
All’uccisione di Franco Romito seguirono varie feroci esecuzioni con una scia di morti, tra cui, il figlio di lui, il ventitreenne Michele, freddato il 27 giugno del 2010 in un agguato mentre era in auto con lo zio Mario Luciano, scampato nuovamente alle pallottole e ferito in maniera lieve. La strage di oggi si inserirebbe in una nuova guerra fra clan del Gargano: con i morti di oggi sono 17 le persone ammazzate dall’inizio dell’anno e ci sarebbero anche due lupare bianche. L’ultimo delitto, il 27 luglio, è stato quello del ristoratore di Vieste, Omar Trotta, 31 anni, freddato a colpi di pistola all’ora di pranzo mentre si trovava nel suo locale, ‘L’antica Bruschetta’.
Uno scenario quello relativo all’area garganica che la stessa Dia definisce “molto instabile”. Principalmente per due fattori: “la presenza di gruppi a forte organizzazione verticistica, basati essenzialmente su vincoli familiari e non legati tra loro gerarchicamente” e “l’ascesa delle giovani leve desiderose di colmare i vuoti determinati dalla detenzione di elementi di spicco”, in particolare quelli appartenenti al clan Libergolis, o “dei Montanari”.
Quest’ultimi, originari di Monte Sant’Angelo, sono stati contrapposti dalla fine degli anni ’70 in una sanguinosa faida – decine i morti ammazzati – con il clan degli Alfieri-Primosa e, più di recente, con la famiglia Romito (quella del pregiudicato ucciso oggi), un tempo alleata. Secondo quanto ricostruito in numerose inchieste giudiziarie, infatti, i Libergolis avrebbero rappresentato il braccio armato dello storico “clan dei Montanari”, mentre i Romito si sarebbero occupati di gestire i proventi degli affari illeciti e i rapporti con gli ambienti economici e politici. L’alleanza si è però rotta, per questioni di potere e di controllo del territorio. E per la gola profonda di Franco, dicono gli atti giudiziari. E una nuova guerra è cominciata.