Il Tribunale emette una sentenza che farà discutere: le condizioni inumane in cui lo Stato ha tenuto i migranti ha danneggiato sia loro che il Comune nel quale ha stabilito il centro di identificazione. Il giudice accoglie così le ragioni di due legali che si erano sostituiti all'amministrazione per chiedere i danni e stabilisce un nesso tra l'identificazione del luogo con il centro, come è stato per Lampedusa, Auschwitz, Guantanamo o Alcatraz
I Cie vecchia maniera possono ledere l’immagine dei comuni che li ospitano. E il governo per questo deve pagare. È il senso della sentenza emessa ieri dal Tribunale di Bari che ha condannato la Presidenza del Consiglio a pagare 30mila euro di danni di immagine “in conseguenza dei trattamenti inumani e degradanti praticati in danno dei detenuti” nel Cie chiuso nel 2016 . La sentenza, firmata dal giudice monocratico Concetta Potito, è stata pronunciata su ricorso degli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci, che hanno agito ‘in sostituzione’ del Comune e della Provincia di Bari.
“Il Cie di Bari – scrive il giudice nelle motivazioni – viste le risultanze probatorie, non risulta di certo idoneo all’assistenza dello straniero e alla piena tutela della sua dignità in quanto essere umano. Il risarcimento è ritenuto necessario per via dell’ingente danno arrecato alla comunità territoriale tutta, da sempre storicamente dimostratasi aperta all’ospitalità, per via delle scelte gestionali dell’Amministrazione statale“. “Quest’ultima – secondo il giudice – è rimasta inerte dinanzi alle numerose segnalazioni circa le condizioni in cui versavano gli immigrati del Cie, nonché dinanzi a richieste di verifica delle condizioni igienico-sanitarie del Centro”.
La sentenza rimarca che “il danno all’immagine si giustifica alla luce di quella che è una normale identificazione, storicamente provata, tra luoghi ove si perpetrano violazioni dei diritti della persona e il territorio che li ospita“. Il giudice fa alcuni esempi: “Si pensi ad Auschwitz, luogo che richiama alla mente di tutti immediatamente il campo di concentramento simbolo dell’Olocausto – osserva il magistrato – e non di certo la cittadina polacca sita nelle vicinanze. Ma si pensi anche a Guantanamo, ad Alcatraz: istintivamente il pensiero corre subito e soltanto ai noti luoghi di prigionia di massima sicurezza, e non certo alla base navale nell’isola di Cuba all’interno della quale il primo è ubicato, né tantomeno all’isola nella baia di San Francisco ove era sito il carcere”.
Anche in Italia si trovano esempi, come Lampedusa, il cui nome – afferma il giudice citando una precedente ordinanza del 3-9 gennaio 2014, “ormai evoca immediatamente più ‘la parte’, vale a dire il campo profughi che vi è ospitato (insieme con i periodici e per lo più drammatici approdi di migranti dal mare e con i fatti anche luttuosi o ‘scandalosi’ che vi sono accaduti e vi accadono) che il ‘tutto’, e cioè l’isola protesa nel Mediterraneo”.
Nel loro ricorso gli avvocati Paccioni e Carlucci avevano anche chiesto al giudice di ordinare la chiusura del Cie di Bari ma il magistrato ha ritenuto “inutile” pronunciarsi, essendo il Cie già chiuso. Inoltre, i due legali avevano chiesto un risarcimento del danno “per la violazione dei diritti umani all’interno del Cie”. Anche su questo, il giudice non si è pronunciato perché ha ritenuto che la richiesta avrebbe dovuto essere avanzata dalle persone ristrette nel Cie.