Il dibattito sull’immigrazione sembra essere monopolizzato da commentatori e supporter sempre più specializzati in distrazioni di massa. Il tema su cui si discute con più accanimento è il valore da dare alla salvezza delle vite umane nel Mediterraneo. L’argomento è sicuramente rilevante, anche tenendo conto delle dimenticanze verso cui è spinta l’opinione pubblica dai media nei confronti di conflitti, guerre e carestie che riguardano popoli che abitano regioni periferiche del mondo, o delle condizioni inumane in cui sono costretti a vivere i profughi siriani nei campi di Smirne o Nezip in Turchia finanziati con il contributo “umanitario” della Comunità europea.
Il tema del salvataggio nel Mediterraneo tuttavia, per quanto importante, non dovrebbe esimere politici e cittadini da porsi alcune domande rispetto a cosa accade prima e dopo il momento del salvataggio. Ovvero se le buone coscienze che urlano ai crimini di umanità quando si discute di rispetto delle regole e delle leggi di un paese sovrano sono ancora tali nel momento in cui si getta lo sguardo sulla parte nascosta e meno visibile del fenomeno degli attuali flussi migratori dai paesi africani e medio orientali.
Cosa accade prima del recupero dei migranti dai gommoni da parte delle navi delle Ong e della marina militare per esempio è un fenomeno per molti versi altrettanto se non più violento dei naufragi e delle traversate in mare aperto. Quante persone sono morte nel tragitto nel deserto? Quanti nei centri di transito gestiti dai trafficanti di uomini? Quanti stupri, quante umiliazioni, quante estrazioni di organi si registrano nei viaggi attraverso il deserto fino alle coste del Mediterraneo? Meno dei morti annegati a causa dei naufragi oppure di più? Nessuno si interessa di questa contabilità oscura. E’ l’evento del naufragio in mare a colpire gli animi più sensibili. I corpi che emergono dall’acqua sono più impattanti di quelli decomposti del deserto che non si vedono sotto la sabbia.
Eppure sarebbe moralmente giusto chiedersi quale sia il costo in termini di vite umane, violenze e sopraffazioni che si registra durante il cammino nel deserto. Perché della decisione di partire e finire nelle mani dei trafficanti, e della speranza che vi sia una vita migliore possibile alla fine del calvario del viaggio sono responsabili, non solo i venditori di false promesse che organizzano i trasporti, ma anche coloro che con la retorica del rispetto delle vite umane hanno reso possibile il traghettamento di centinaia di migliaia di persone al di fuori di un sistema di controlli e regole capaci di selezionare gli aventi diritto per ragioni umanitarie dalla massa di diseredati preda delle promesse dei trafficanti. Senza l’incentivo della tolleranza dei flussi dei clandestini, la traversata del deserto, le morti per saccheggio e l’accanimento sui più deboli sarebbero state meno frequenti? Migliaia di persone avrebbero forse scelto di fermarsi nei paesi di origine invece di tentare un’avventura dai costi umani indicibili? Sono domande, forse banali, ma certo non eludibili per chi abbia a cuore autenticamente il destino delle vite umane.
Un’altra domanda a cui le coscienze spesso un po’ troppo immacolate dei sostenitori dell’accoglienza in mare non pare abbiano grande interesse a rispondere è cosa accade ai migranti una volta salvati e approdati sul suolo italiano. Si può dire siano salvi? Che siano messi in condizione di vivere un’esistenza migliore di quella che hanno sperimentato nei paesi di origine? Che siano trattati come esseri umani e non, una volta garantite le entrate della gestione dei centri di accoglienza, lasciati al loro destino di marginalità e esclusione sociale?
Anche questi interrogativi appassionano poco. Molti cosiddetti “operatori umanitari” vendono l’avvenuta integrazione con la pulitura volontaria da parte dei migranti delle panchine del lungo lago. Fanno più fatica a parlare del numero crescente di persone che una volta ricevuto o solo in sentore di ricevere un diniego amministrativo si disperdono sul territorio andando a ingrossare le file dallo sfruttamento economico nei cantieri, o dei campi di pomodoro. O della difficoltà di trovare un’occupazione dignitosa in un’economia che registra il 12 per cento di disoccupazione complessiva e più del 35% di disoccupazione giovanile? Che tipo di accoglienza è quella che finisce per creare una massa di diseredati che altro non possono fare che vendere il proprio corpo e le proprie braccia per pochi euro al giorno sul mercato nero o che per campare deve vivere di espedienti al limite o al di fuori della legalità? Cosa ne dicono le anime belle del fatto che un numero sempre più alto di giovani ragazze accolte dai centri dopo una settimana sono a lavorare sulla strada per compiacere gli istinti dei compratori di sesso a pagamento? E come si pongono costoro di fronte al fenomeno della xenofobia dilagante dei gruppi più vulnerabili di cittadini autoctoni che non hanno strumenti culturali, sociali e economici per percepire l’immigrazione deregolata come risorsa invece che come pericolo mortale?
Perché gli spiriti umanitari non riescano così spesso a vedere il prima e il dopo il salvataggio in mare come problema che deve essere affrontato per costruire una politica dignitosa di immigrazione rimane un fatto misterioso. Forse i secoli di sfruttamento europeo dei paesi sottosviluppati hanno contribuito a creare un problema di coscienza in molte persone. Ma pensare che recuperare gli immigrati sui gommoni nel Mediterraneo sia sufficiente per salire al Regno dei Cieli pare una pretesa parecchio irriguardosa nei confronti dei principi di giustizia e rispetto degli esseri umani.