Capita abbastanza spesso di incrociare un amico netturbino, oggi definito “operatore ecologico dell’Ama”, dove per Ama non si intende la seconda persona dell’imperativo del verbo amare, ma semplicemente l’azienda che si occupa dei rifiuti a Roma.
Così ho conosciuto Gino che ha il compito di radunare miriadi di rifiuti che i cittadini di Roma sistematicamente gettano nelle strade e sui marciapiedi.
Lui con la ramazza ammucchia ogni sorta di minuscoli pezzi di carta, scontrini, cicche di sigarette, in una lunga fila ai margini della via, poi passa il piccolo furgone a spazzole rotanti che ingoia la spazzatura.
Così è capitato che dopo qualche giorno ho incontrato nuovamente Gino e l’ho salutato dicendo: “Ciao Presidente”.
Lui mi ha guardato con occhi folgoranti e ha sibilato: “Presidente de che?”
E io: “Di te stesso”.
E lui, rassicurato: “Ah mbeh! Ti offro un caffè”.
Io, che raramente bevo caffè, mi sono avviato con lui al bar, questa piccola chiesa laica dove gli abitanti del quartiere si radunano nel corso della giornata per interrompere l’ergastolo del lavoro e tener desta l’ipotesi di poter vivere un giorno in pace la propria vita. E’ così che Gino, all’improvviso, mi ha rivelato i suoi sconcertanti esperimenti.
Sin da bambino ci sono momenti della giornata in cui Gino sente un delicato formicolio che gli invade la testa, offrendogli una sensazione peraltro molto gradevole. Istintivamente, ovunque si trovi, Gino chiude gli occhi e “parte per l’universo”.
“Cioè?”, chiedo con delicatezza.
Gino mi sospinge oltre i tavoli, nell’angolo vuoto del bar.
Cioè, mi vedo salire, andare oltre le nubi, oltre la terra, oltre la luna e i pianeti e lo spazio diventa una notte chiara, immensa. Mi avvicino alle stelle, poi arrivano i colori e sono spazi infiniti e la mia immaginazione viaggia veloce come i pensieri e quando oltrepasso l’abisso dei colori…”.
Ora Gino parla a occhi chiusi e il suo viso è vicinissimo al mio. Mi avvolge la sensazione di avvertire che sto cadendo verso l’alto, percorrendo un abisso verticale mai frequentato e sussurro: “E poi?”.
Gino schiude gli occhi ma il suo sguardo è assente: “Superata la galassia dei colori finalmente raggiungo il candore dell’infinito, un bianco denso, un mare immenso di luce, e lì c’è lei”.
“Lei chi?”.
“La beatitudine… Ma il caffè? Non lo bevi?”.
Un vero choc: Gino mi porta con rara grazia fino alle soglie dell’infinito, poi mi lascia precipitare nell’immensità nerastra del caffè fumante nella tazza che a me, puro spirito guidato per un istante tra le galassie da Gino il netturbino, appare ora immensa come un oceano.

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