La proiezione, pubblicata nel report Modern Slavery Index 2017 a cura del centro studi britannico Verisk Maplecroft, si basa soprattutto sull’elevato numero di sbarchi sulle coste italiane. Arrivi che hanno provocato un innalzamento del numero delle “persone vulnerabili” facili prede di mafie e sfruttatori. Il sociologo: "Il problema è il sistema d'accoglienza. L'80% di sfruttati è di nazionalità straniera, gli altri italiani"
L’Italia è uno dei Paesi europei in cui è più alto il rischio schiavitù, insieme a Bulgaria, Cipro, Grecia e Romania. La proiezione, pubblicata nel report Modern Slavery Index 2017 a cura del centro studi britannico Verisk Maplecroft, lancia l’allarme basandosi soprattutto sull’elevato numero di sbarchi di migranti sulle coste italiane nel 2016. Arrivi che hanno provocato un innalzamento del numero delle “persone vulnerabili” sul territorio, facile preda di mafie e sfruttatori, andando così ad alimentare il lavoro nero e lo sfruttamento. “Rileviamo dati simili da qualche anno – commenta Marco Omizzolo, sociologo ed esperto di caporalato e sfruttamento degli immigrati – e questo ultimo report conferma il trend. Ma attenzione, il problema non sono i migranti, ma un sistema di accoglienza e un mercato del lavoro che sulle sponde settentrionali e orientali del Mediterraneo manifestano grossi limiti. I flussi migratori li mettono solo in evidenza. Il problema è strutturale, non a caso il fenomeno del caporalato non lo troviamo, come si pensa, solo nelle grandi piantagioni del sud, ma anche nelle aziende vinicole d’eccellenza del ricco Piemonte”. Ma quanti sono gli schiavi nel nostro Paese? “Secondo gli ultimi rilevamenti – dice il sociologo – in Italia sono 100 mila le persone in condizione di schiavitù e para schiavitù in agricoltura. L’80% sono stranieri, il restante 20% italiani“.
Secondo il report, tra l’altro, le violazioni delle leggi contro lo sfruttamento di esseri umani mostrano un aumento in 20 Paesi membri dell’Unione Europea su 28. I casi più gravi di violazioni in Romania e Italia, dove si rilevano più episodi di lavoro forzato, servitù e traffico di esseri umani. “In un sistema dove domanda e offerta sono così grandi – continua Omizzolo – si inseriscono le mafie. Lo fanno in due modi. In alcuni casi reclutano persone direttamente nel Paese di origine e organizzano il trasferimento, in maniera legale o illegale. Altre volte riescono a entrare nei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) meno controllati che, così, diventano luoghi di reclutamento. Le mafie non producono il sistema, dovuto a pecche dell’accoglienza e del mercato del lavoro, ma vi si inseriscono, lo sfruttano. Gli ultimi censimenti parlano di 27 mafie coinvolte in questo business”.
E, in Italia, il settore dove più frequentemente ci si imbatte nello sfruttamento o la riduzione in schiavitù è quello agricolo. Ma non sono solo alcune piantagioni di pomodori del sud Italia, dove sfruttamenti, abusi e violenze sessuali sono all’ordine del giorno, a destare preoccupazione: “È sbagliato pensare che questi lavoratori sfruttati – dice il sociologo – finiscano solo a raccogliere pomodori in Puglia e in Sicilia o nei campi e nei mercati generali dell’Agro Pontino. Di uomini e donne ridotti in schiavitù se ne trovano anche nelle aziende dell’eccellenza vinicola del ricco Piemonte. Questo dimostra che il fenomeno ha natura sistemica”. Per questo, fare una mappa della schiavitù in Italia non è possibile perché si parla di un fenomeno fluido: “C’è settorializzazione – spiega Omizzolo -, ma non si può parlare di modello. A Latina, fino a qualche anno fa, non si trovavano richiedenti asilo nei campi, oggi sì. Molti di loro lavoravano nelle aziende del nord. Inoltre, non è corretto fare una differenziazione etnica: nei campi non si trovano solo indiani e africani, ma anche persone dell’est Europa e di altre zone del mondo. Stessa cosa vale per la prostituzione: per strada si trovano molte donne dell’est e nigeriane, ma in casa lavorano anche molte cinesi e addirittura donne provenienti da Pakistan e Bangladesh”.
In Italia, però, il problema dello sfruttamento e riduzione in schiavitù non si limita solo al settore agricolo, ma si manifesta anche nelle costruzioni e nei servizi. E poi c’è lo sfruttamento della prostituzione, dove a dominare il mercato sono le mafie dell’est e quelle nigeriane. Un mercato, stima l’Istat, che vale 90 milioni di euro al mese, 1,1 miliardi all’anno, alimentato da circa 9 milioni di clienti che hanno a disposizione tra le 75 mila e le 120 mila ragazze sparse per il Paese. Il 55% di queste giovani, in buona parte minorenni, sono straniere, soprattutto nigeriane, che rappresentano il 36% delle non italiane, e romene, 22%: “A queste vanno aggiunte le donne sfruttate in più settori – conclude Omizzolo – In alcune aree del Paese, diverse forme di schiavitù si saldano. Prendiamo l’esempio delle romene: spesso lavorano nei campi ma sono costrette anche a mettersi a disposizione del proprio padrone come oggetto sessuale”.
Twitter: @GianniRosini