Pur essendo italiano di nascita, appartengo a un’altra tradizione accademica, e i problemi additati dagli autori della recente petizione dei dottorandi dell’Università di Milano per chiedere l’aumento dell’importo delle borse di studio in tutta Italia, mi colpiscono per la loro gravità. Un confronto col sistema anglosassone può aiutare a mettere in rilievo alcuni punti critici:
1. Mancanza di regole di progressione e progettazione della carriera
Il dottorato italiano è un percorso breve, durante il quale o si lima la tesi di laurea o, nel peggiore dei casi, si fa ricerca per un barone, trovandosi poi ad affrontare il mercato del lavoro completamente sprovvisti di esperienza. Negli Stati Uniti, il dottorato dura dai 5 agli 8 anni ed è strutturato in maniera sistematica. I primi tre anni sono durissimi, con esami che devono essere superati entro date prestabilite, pena la perdita del posto di dottorato.
A partire dal terzo anno, i dottorandi cominciano a insegnare, e solo durante il quinto anno iniziano a scrivere la tesi. Contemporaneamente, entra in gioco il Career office, col compito di guidare nella ricerca del lavoro chi si approssimi alla fine del percorso. Il personale dell’ufficio carriere ha competenze specifiche (per acquisire le quali ha studiato e si è formato): è aggiornato sulle statistiche relative allo stato di salute delle varie discipline, e insegna al candidato le regole base della negoziazione di salari e “benefits”, oltre a fornire una formazione che va dalle linee guida per la compilazione di un curriculum, all’etichetta di una cena di affari.
Il prestigio di un ateneo si misura anche dalla sua abilità di impiegare i propri “addottorati” e ogni dipartimento serio dedica una pagina web al cosiddetto “placement”, ovvero per ogni addottorato indica il suo presente impiego. In Italia, l’ufficio delle carriere non esiste perché manca un mercato del lavoro. Il mercato del lavoro manca anche perché non esistono regole di progressione. E non esistono regole di progressione perché questa incertezza è un humus fertile per ogni tipo di abuso.
2. Mancanza di divisione delle carriere
In Italia, i dottorati non sono modulati. Nel mondo anglosassone esiste una divisione netta tra scuole professionali e scuola graduata. Le scuole professionali, di breve durata, formano, come suggerisce il nome, all’esercizio di una professione: per esempio l’avvocato, o il business manager. Molti di questi mestieri sono ad altissima retribuzione e per questo, se da una parte le borse di studio sono limitate, dall’altra i canali per ottenere prestiti bancari (loans) sono numerosi e agibili. Le banche sanno che i “loans” erogati saranno pagati in tempi brevi data la facilità dei contraenti di trovare da subito stipendi “six figure”, cioè superiori ai 100mila dollari. Le università americane raccolgono grandi introiti attraverso le tasse pagate da questi futuri ricchi.
Le Graduate schools, invece, sono accademie per la formazione dei professori universitari (gli unici che possono fregiarsi del titolo di dottore). Come già menzionato, richiedono numerosi anni di impegno e preparano alla ricerca, alla docenza e alla gestione di un dipartimento universitario. Arriviamo, dunque, all’aspetto più lunare per chi sia abituato al sistema Italia. Negli Stati Uniti, i futuri professori universitari, spesso di materie puramente speculative, vengono completamente supportati dalla loro istituzione, che si fa carico delle salatissime tasse universitarie.
A loro corrisponde uno stipendio che è circa il doppio degli agognati 1.200 euro dei dottorandi italiani, protegge il loro potere di acquisto offrendo affitti a prezzo calmierato, si fa interamente carico dei costi di conferenze e materiali tecnologici, oltre a offrire palestre (gratuite), asili (gratuiti) e posizioni lavorative per un eventuale coniuge. In media, ogni dipartimento investe intorno al mezzo milione di dollari per la formazione di ogni singolo dottorato. Soldi erogati a fondo perduto, perché un professore americano, sebbene guadagni considerevolmente di più di un collega italiano, dovrebbe fare grossi sacrifici per poter ripagare un prestito bancario di mezzo milione di dollari, e ciò minerebbe il principio della ricerca come atto di libertà, che è anzitutto libertà dal bisogno.
3. Mancanza di una cultura del finanziamento
Da dove provengono queste poderose risorse finanziarie? L’adagio secondo il quale si tratterebbe del frutto avvelenato delle altissime tasse universitarie che arricchiscono istituzioni già ricche, trasformando un diritto in un privilegio, è una mezza verità. Il sistema dell’istruzione superiore statunitense è afflitto da problemi cronici di ingiustizia sociale, e questo non si discute. Tuttavia, tali piaghe riguardano in particolare l’educazione undergraduate, cioè quella parte del percorso universitario che porta alla laurea. A onor del vero, molte delle più prestigiose istituzioni sono “need- blind”, vale a dire scelgono i propri studenti senza guardare al loro censo e si fanno carico di tutte voci di spesa qualora le famiglie dei nuovi ammessi risultino indigenti.
Gli introiti delle tasse pagate da coloro che possono corrispondere la cifra in toto difficilmente potrebbero per coprire le spese per la formazione dei dottorandi. Dunque, di nuovo, da dove provengono le risorse necessarie? La risposta comprende varie risposte. Gestione virtuosa dei budgets e innovazione continua (i brevetti, per esempio, generano guadagni considerevoli) sono importantissimi, ma quantità sostanziali di denaro arrivano sia dallo stato che da privati. Questo è il nocciolo del problema: il governo statunitense, a differenza di quello italiano, investe in ricerca una cifra che è, in proporzione, spaventosamente più alta.
Si aggiungono, poi, le innumerevoli iniziative dei privati. E qui veniamo a un altro locus desperationis: ovvero la mancanza assoluta di una cultura di donazione per la ricerca. In Italia le donazioni private verso le università sono poche e si preferisce continuare a versare grande parte dell’otto per mille a uno stato straniero, anziché contribuire allo sviluppo civile del proprio paese. Il fenomeno del micro-mecenatismo cioè del privato cittadino che regolarmente stacca un assegno, anche minimo, per la propria scuola, semplicemente non esiste. Così come non esistono privati benemeriti che si facciano carico di costruire un nuovo laboratorio, o restaurare la biblioteca di ateneo.
In Italia, il mecenatismo verso l’università pubblica è quasi assente e ciò dipende largamente dalla mancanza di una borghesia ricca e colta. In Italia, i ricchi sono spesso ignoranti, o troppo ignoranti per poter praticare il mecenatismo. Le persone colte, invece, si ritrovano ad avere mezzi economici limitati. Le cause storiche di questo disastro sono molteplici, ma tant’è: negli Usa hanno Rockefeller, l’Italia, invece, si deve accontentare di chi investe nel Billionaire.