CHICOUTIMI – Anno importante questo, per il Canada: 150 anni dalla sua nascita, 375 dalla fondazione di Montréal e 50 dall’Expo del 67 che rivoluzionò (assieme alle Olimpiadi del 76) la città francofona del Québec. Qui, Francia e Parigi sono visti come miraggi ai quali tendere. Così anche le marionette e i burattini, pratica e arte teatrale nella quale i francesi sono maestri e hanno maestria e attenzione particolare, sono una disciplina che in quest’angolo frastagliato è molto seguita, amata, praticata. Qui, a cinque ore da Montréal, passando per parchi verdi dove il traffico è scarso mentre alci, lupi, aceri, betulle e orsi sono facilmente avvistabili, ogni due anni esplode nel suo caleidoscopio di colori ed esperienze internazionali il Festival international des Arts de la marionnette à Saguenay, alla quattordicesima edizione (dal 25 al 30 luglio), meglio chiamato con l’acronimo Fiams. Saguenay non è una città, ma una zona, una provincia che si sviluppa attorno ad un fiordo che dal lago Saint–Jean, incuneandosi verso il Nord-Est del Paese delle alci e dello sciroppo d’acero. Nella bandiera del Québec è presente un giglio del tutto simile al “giaggiolo” fiorentino, l’iris francese.
Il termine “marionette” in quest’ambito si apre a una grande varietà di specifiche e variazioni sul tema, dai burattini alle ombre, dalle maschere ai pupazzi fino alla commedia dell’arte per un ventaglio di proposte eterogenee (oltre 40 performance) provenienti da Canada, Francia, Messico, Israele, Norvegia, Paesi Bassi, Brasile, Perù, Italia (Gianluca Di Matteo con “Le guarattelle di Pulcinella”). Forti e d’impatto questi piccoli oggetti nelle mani degli attori prendono vita, corpo, assumono un carattere, una personalità, sembra che pensino e respirino, abbiano pose e idee, convinzioni e ambizioni.
E’ il caso di “Haikus de prison”, della compagnia canadese Theatre à bout portant, ambientato in una lavanderia di un carcere, addobbata con fili, mollette e calzini stesi che creano giochi d’ombre e nascondimenti, che riesce, seppur, appunto, con il linguaggio, anche colorato e festoso e leggero, dei pupazzi alternati all’attorialità, a portarci nel fango delle violenze fisiche e psicologiche subite dietro le sbarre in tutti quei luoghi del mondo nei quali si finisce per essere arbitrariamente e fascistamente detenuti per le proprie idee, scelte personali, religiose, politiche. Una pièce coinvolgente, impossibile non provare disagio e frustrazione, contro i regimi di polizia e ogni dittatura. Inevitabilmente ci viene alla mente Silvio Pellico con “Le mie prigioni”. Non ci sono buonismi né tanto meno censure e i calzini, simbolo della protezione che diamo al piede, diventano l’icona dell’impossibilità di andare, di correre, scappare e l’uomo che non può camminare non può definirsi libero.
Estremamente interessante e dalle molte interpretazioni è “Blind” con lo snodabile Duda Paiva, performer brasiliano, che danza, lotta, scende a difficili compromessi, si batte, dialoga, interagisce, si abbraccia, tenta di pacificarsi con questi “mostri” che escono letteralmente dalla sua pelle, sotto la sua carne. Sono degli ammassi bitorzoluti di gommapiuma (ricorda “Elephant man” o i freak da Circo Barnum) che prima lo deformano con gobbe e bozzi e che, una volta slegati e sciolti, assumono vere e proprie sembianze umane: sono le sue paure fattesi concrete e reali, i demoni interiori che ognuno di noi ha e che deve combattere o mettere a tacere, uccidere o conviverci, sopprimerli o trovargli una voce come valvola di sfogo. Il dolore si può esorcizzare e vincere.
Evocativo e corroborante, sia per gli adolescenti che vivono quell’età difficile di passaggi e cambiamenti, sia per i genitori che la devono affrontare, è “Bella” dei francesi Clan des Songes che riesce con piccoli tocchi lievi e delicati a delineare a tratteggiare lo sconvolgimento, interiore e fisico, che ogni ragazzo e ragazza provano in quel filo sottile dall’infanzia all’età adulta. Tutto cambia attorno e dentro e la bambina, appunto Bella, che prima giocava adesso si annoia e si annoda dentro il labirinto dei suoi pensieri. Dialoga con nuvole, gabbiani e alberi e tutto prende la forma del sogno dove la trasformazione è il meccanismo principe in un impianto elegante e raffinato d’estremo rigore e pulizia scenica. Altre segnalazioni d’obbligo sono per “Ogo” del Théatre des petites ames, partendo da “Aspettando Godot” e per “Le projet Beckett” dei Tenon Mortaise, da “Finale di partita”, entrambe accomunate dall’amore per il genio irlandese.