Di sicuro sui giornali è finito più spesso di quanto avesse voluto. L’ultima volta recuperò un’inattesa celebrità perché giornali e programmi tv lo cercavano come il “grande accusatore” di Antonio Logli, il marito di Roberta Ragusa poi condannato a vent’anni, la donna scomparsa nel 2012 da San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Ma l’ultima cosa che si può dire di Antonio Giaconi, morto ieri a 61 anni, è che avesse il piacere del protagonismo. Sguardo basso davanti alle telecamere, frasi pronunciate dopo secondi di concentrazione, parole scelte con cura, tono della voce sempre basso, perché non c’è da fare spettacolo in certi casi, in certi posti, in certi momenti. Giaconi è stato per vent’anni pm a Livorno, per altri 7 a Pisa, dov’era nato. In entrambe le città ha ricoperto il ruolo di reggente facente funzione in periodi in cui mancava un capo. Giaconi era gentile e sorridente, accurato nelle parole e nei comportamenti, anche quando non poteva “dire di più”. Era diventato col tempo la “memoria storica” della Procura di Livorno, prima di tornare a lavorare nella sua città. Un magistrato “al servizio”, che sembrava portarsi dietro la fatica e la sofferenza dei casi che seguiva, anche sulle storie minori. Come a metà anni Novanta, quando sequestrò e fece evacuare un intero quadrilatero di abitazioni a rischio crollo nel quartiere popolare di Shangai, a Livorno, perché c’era il rischio che venisse giù tutto. O come nella sua ultima settimana da “pm di turno” sempre a Livorno, quando si dovette occupare di due incidenti sul lavoro in tre giorni, in cui morirono due operai prima nel cantiere navale e poi su una banchina del porto. Impiegò meno di un minuto per dire che lì non si lavorava in sicurezza, trattenendo a fatica la rabbia per un dolore evitabile.
Come tutti, ha vinto alcune sfide e ne ha perse altre. Per esempio fu lui ad aprire una nuova inchiesta, 15 anni dopo, sul disastro navale del Moby Prince, guidando un pool di suoi colleghi: l’indagine finì con un’archiviazione e una ricostruzione dei fatti contestata per anni dai familiari delle vittime e ora per certi aspetti smontata dal lavoro della commissione d’inchiesta del Senato. “E’ stato un impegno grosso – si limitò a dire lui – ma credo che fosse giusto per la città” avrebbe detto più tardi. Finì con un’assoluzione un processo per un “omicidio di provincia“, che però non meritò mai le pagine dei giornali nazionali come altri. La storia era poco appetibile per il gran circo dei media: a perdere la vita era stata un’anziana, si chiamava Natalina, aveva 82 anni. Quattro giorni prima di Natale, si trovava nella sua abitazione di Ghiaccioni, alla periferia di Piombino, quando qualcuno la immobilizzò, la legò mani e piedi con delle reggette e le avvolse un lenzuolo intorno al capo per coprirle bocca. Natalina morì soffocata dalla sua dentiera. Era una rapina finita male. Giaconi era convinto di aver trovato i responsabili, due conoscenti del figlio della vittima. Nonostante il trasferimento fosse già avvenuto, volle portare il processo fino alla requisitoria. Tutti i tribunali, però, dissero che non c’erano prove sufficienti per una condanna.
Ma l’insistenza di Giaconi – che credeva ai risultati delle sue indagini – ha ribaltato l’esito di un processo che sembrava finito con zero risposte. Fu un “non luogo a procedere”, infatti, la prima sentenza sull’imputato Antonio Logli, presunto assassino della moglie Roberta Ragusa, la cui foto con il volto sorridente e i grandi occhi chiari è rimbalzata per anni nei programmi tv specializzati in nera e giudiziaria, a partire da Chi l’ha visto? e Quarto Grado. Giaconi perse la prima, ma poi ottenne dalla Cassazione un nuovo processo. “Faremo di tutto – disse – per la ricerca della verità”. Si prestò un po’ di più a microfoni e telecamere, magari lasciando gli occhiali da sole per coprire lo sguardo basso, perché l’obiettivo era difendere il lavoro investigativo e trovare la verità sulla scomparsa della Ragusa, anche per i suoi parenti. Nel dicembre scorso, alla fine, Logli è stato giudicato colpevole in un nuovo giudizio di primo grado. Il giudice nelle motivazioni ha riutilizzato le parole del pm: l’imputato, ha scritto il gup, è un “bugiardo patentato“.
Al nome di Giaconi si lega anche l’ultima grande inchiesta per corruzione a Livorno. Divenne nota come Elbopoli: la prese in eredità da Roberto Pennisi (ora alla direzione nazionale antimafia) e la portò fino al compimento. In quell’inchiesta furono arrestati e condannati in via definitiva un prefetto, il suo vice, il capo dell’ufficio dei giudici per le udienze preliminari del tribunale di Livorno. Un’inchiesta che coinvolse anche l’allora ministro Altero Matteoli, la cui posizione da indagato per favoreggiamento finì nel nulla per un conflitto di attribuzioni dalla Corte costituzionale.
Sembrava che le inchieste gli rimanessero addosso. Tra i casi che ricordava sempre c’era quello della morte di 4 bambini rom per un incendio scoppiato dove vivevano, una baraccopoli sotto un ponte della Variante Aurelia, una quattro corsie che fa da tangenziale. Era la notte di San Lorenzo del 2007. I bambini avevano 4, 6, 8 e 11 anni. Quella notte, mentre i vigili del fuoco spegnevano l’incendio, arrivò anche Giaconi. La ricostruzione dei genitori dei bambini era incerta, non chiara, non si capiva niente di cos’era accaduto. Così il pm decise di disporre il fermo per entrambi. Alla fine si scoprì che l’incendio fu un incidente, ma i genitori avevano lasciato i figli da soli mentre stavano litigando con altri nomadi ad alcune centinaia di metri di distanza. “Mi costò tantissimo chiedere quel fermo – raccontò anni dopo – perché un genitore che perde un figlio in quel modo ha già pagato un prezzo altissimo. Ma non potevamo fare altrimenti: c’erano molte cose ancora da chiarire. E’ stato un caso molto duro, che non poteva non coinvolgermi emotivamente”.