Antonio Giaconi aveva 61 anni, ha lavorato sempre tra Livorno e Pisa e il suo nome è legato alle principali inchieste anche per corruzione. Come "Elbopoli", che coinvolse un prefetto e sfiorò Matteoli. Sempre gentile, mai incline alla spettacolarizzazione delle inchieste, dopo la prima assoluzione del marito della donna scomparsa in provincia di Pisa promise: "Faremo di tutto per trovare la verità"
Di sicuro sui giornali è finito più spesso di quanto avesse voluto. L’ultima volta recuperò un’inattesa celebrità perché giornali e programmi tv lo cercavano come il “grande accusatore” di Antonio Logli, il marito di Roberta Ragusa poi condannato a vent’anni, la donna scomparsa nel 2012 da San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Ma l’ultima cosa che si può dire di Antonio Giaconi, morto ieri a 61 anni, è che avesse il piacere del protagonismo. Sguardo
Come tutti, ha vinto alcune sfide e ne ha perse altre. Per esempio fu lui ad aprire una nuova inchiesta, 15 anni dopo, sul disastro navale del Moby Prince, guidando un pool di suoi colleghi: l’indagine finì con un’archiviazione e una ricostruzione dei fatti contestata per anni dai familiari delle vittime e ora per certi aspetti smontata dal lavoro della commissione d’inchiesta del Senato. “E’ stato un impegno grosso – si limitò a dire lui – ma credo che fosse giusto per la città” avrebbe detto più tardi. Finì con un’assoluzione un processo per un “omicidio di provincia“, che però non meritò mai le pagine dei giornali nazionali come altri. La storia era poco appetibile per il gran circo dei media: a perdere la vita era stata un’anziana, si chiamava Natalina, aveva 82 anni. Quattro giorni prima di Natale, si trovava nella sua abitazione di Ghiaccioni, alla periferia di Piombino, quando qualcuno la immobilizzò, la legò mani e piedi con delle reggette e le avvolse un lenzuolo intorno al capo per coprirle bocca. Natalina morì soffocata dalla sua dentiera. Era una rapina finita male. Giaconi era convinto di aver trovato i responsabili, due conoscenti del figlio della vittima. Nonostante il trasferimento fosse già avvenuto, volle portare il processo fino alla requisitoria. Tutti i tribunali, però, dissero che non c’erano prove sufficienti per una condanna.
Al nome di Giaconi si lega anche l’ultima grande inchiesta per corruzione a Livorno. Divenne nota come Elbopoli: la prese in eredità da Roberto Pennisi (ora alla direzione nazionale antimafia) e la portò fino al compimento. In quell’inchiesta furono arrestati e condannati in via definitiva un prefetto, il suo vice, il capo dell’ufficio dei giudici per le udienze preliminari del tribunale di Livorno. Un’inchiesta che coinvolse anche l’allora ministro Altero Matteoli, la cui posizione da indagato per favoreggiamento finì nel nulla per un conflitto di attribuzioni dalla Corte costituzionale.
Sembrava che le inchieste gli rimanessero addosso. Tra i casi che ricordava sempre c’era quello della morte di 4 bambini rom per un incendio scoppiato dove vivevano, una baraccopoli sotto un ponte della Variante Aurelia, una quattro corsie che fa da tangenziale. Era la notte di San Lorenzo del 2007. I bambini avevano 4, 6, 8 e 11 anni. Quella notte, mentre i vigili del fuoco spegnevano l’incendio, arrivò anche Giaconi. La ricostruzione dei genitori dei bambini era incerta, non chiara, non si capiva niente di cos’era accaduto. Così il pm decise di disporre il fermo per entrambi. Alla fine si scoprì che l’incendio fu un incidente, ma i genitori avevano lasciato i figli da soli mentre stavano litigando con altri nomadi ad alcune centinaia di metri di distanza. “Mi costò tantissimo chiedere quel fermo – raccontò anni dopo – perché un genitore che perde un figlio in quel modo ha già pagato un prezzo altissimo. Ma non potevamo fare altrimenti: c’erano molte cose ancora da chiarire. E’ stato un caso molto duro, che non poteva non coinvolgermi emotivamente”.