Si è conclusa la carovana per la giustizia del Partito radicale con il supporto dell’Unione delle Camere penali, l’associazione degli avvocati penalisti. Hanno girato per la Sicilia sostenendo l’esigenza della riforma del diritto penitenziario e cioè del sistema di vita nelle carceri. Ma non solo. Ed è proprio su questo “altro” rispetto al tema carcerario che mi trovo in traumatico dissenso; mi riferisco alla separazione delle carriere tra giudici e pubblica accusa. Il dissenso è traumatico perché sono cresciuto con l’idea del sistema processuale accusatorio, dove la separazione è un fatto congenito al modello, e il mio attaccamento alla battaglie radicali e delle Camere penali è risalente. Ma non solamente credo che il tempo attuale non sia quello della separazione ma temo che questa scelta, oggi, sarebbe addirittura nefasta per il nostro processo.
Siamo, come avrebbe detto Fichte, “nell’epoca della compiuta peccaminosità”, dove la società ultra-capitalista ha mangiato lo schema classico di processo, con al centro il dibattimento ed il giudizio, a tutto favore di una totale ed assoluta mercificazione della vicenda delittuosa; la giustizia si è trasformata nel “crime” che altro non è che la sua versione da prodotto da banco in cui il bene ed il male non fanno differenza, ciò che conta, alla Baudrillard, è solamente la vertigine del fatto e la replica infinita della sua immagine, purché sia portatrice di un sentimento di attrazione merceologica e non certo il prologo per comprendere le modalità del giudizio. Il processo vero e proprio, tema centrale ai tempi dell’inquisizione e della ormai desueta giustizia mediatica, è stato nullificato. Conta solamente che tipo di attrattiva vertiginosa produce l’immagine emotiva di una vicenda. Su di essa non c’è più giudizio, né di bene né di male e questo perché il mercato non consente giudizi etici ma solo giudizi di vendibilità del prodotto. Trionfa esclusivamente la sua iper-realtà che è, ovviamente “persino meglio della realtà” (come recitava una canzone, “Even better than the real thing”).
Complice primo di questa natura onnivora del mercato “da banco” della giustizia è la deflagrazione delle tecniche investigative che sottraggono terreno ai pubblici ministeri (divenuti un esercito di complemento della tecnica pseudo-scientifica; vittime essi stessi del mito risolutivo della tecnica, a prescindere dalla giustizia). I veri padroni della giustizia, a cui si contrappongono, in senso hegeliano, come servi, i magistrati e gli avvocati, sono i tecnici che gestiscono gli strumenti di accertamento quali la genetica e le intercettazioni. Costoro sono i sovrani del giudizio; decidono se una prova è ripetibile oppure no, se alla difesa si può lasciare un ruolo o va cancellata dalla dialettica. In buona sostanza: i tecnici decidono se la Costituzione ha ancora un senso oppure no. Il processo di oggi, apparentemente garantito dalla scienza, ma in realtà monopolizzato dalla tecnica che è servente alle esigenze di mercato del “crime”, ha messo a morte i suoi principi (basta pensare al contraddittorio sulla prova) ritenendo che queste tecniche siano l’unica fede e l’unica salvezza.
Anche a costo di rinnegare l’evoluzione culturale giuridica. E’ stato talmente ucciso il processo, con i suoi principi, che il Dna può anche essere invisibile, ma non più nel senso che le tecniche sono in grado di rilevarlo anche dove non si vede; ma che può essere catapultato nel processo come un risultato da prendere dogmaticamente senza che nessuno dei protagonisti della vicenda processuale abbia potuto valutarne i risultati. Non casualmente questa prova è quella che meglio supporta e rappresenta l’iper-realtà del mondo-merce della giustizia di oggi. Il fatto che il pubblico ministero, la difesa ed il giudice ricevano questi risultati come una merce “chiavi in mano”, delegittimando il processo e rendendo questo un fantoccio, poco importa. In questo quadro, come detto, di “compiuta peccaminosità” della giustizia, dividere le carriere dei magistrati sarebbe un errore.
Credo che sia necessario, al contrario, costruire una “coscienza di classe” tra tutti gli operatori forensi (giudici, accusatori ed avvocati) per ritrovare un’etica condivisa del processo, che sia in grado di contrastare la deriva attuale. Già la magistratura nel suo complesso aveva creato un fossato tra sé e l’avvocatura; se viene creata un’ennesima frattura si rischia un doppio, possibile, boomerang: che giudicanti e pubblici ministeri si sentano, come reazione, ancora più uniti (con il fascino del “nascosto” e del “trasgressivo”) oppure che l’esercito dei pubblici ministeri si schiacci sempre più sui tecnici dell’indagine e divengano, anch’essi, garanti della compiuta peccaminosità della giustizia-merce.
L’avvocatura, baluardo estremo della realtà desertificata del processo, dovrebbe farsi carico di questa esigenza sociale di ridare vita alla Costituzione e al codice di procedura penale che, in nome del prodotto-giustizia e della sua vertigine iper-reale, ha visto abbandonare i suoi principi. Addirittura le norme “di garanzia” e di civiltà giuridica sono diventate, da limite per l’Autorità a gestione del dissenso (processuale) per nullificarlo (il modo più semplice per togliere un diritto è quello di riconoscerlo ed al contempo renderlo una pura bandiera, senza nessuna effettività concreta).
In tutto ciò, disgregare la magistratura e separarla dall’avvocatura, creando una lotta tra ultimi (perché, comunque, è la tecnica, nel suo segreto, che offre il “prodotto finito”, condannando all’inutilità il processo) sarebbe un grave errore, un regalo assoluto alla giustizia trasformatasi in merce ed al cinismo investigativo dell’esercito dei magistrati d’accusa. Credo che l’avvocatura, in questo, dovrebbe fare un salto culturale, decolonizzando l’immaginario (Serge Latouche) secondo cui alcuni dogmi da sempre cavalcati siano realmente forieri di una buona novella.