Politica

Attentato Barcellona, risparmiateci il rambismo. Lo scontro prima di tutto è nelle menti

Alcune ricostruzioni dei fatti relativi alla mattanza di Barcellona stabiliscono che i killer ragazzini venuti dal Marocco non agivano per conto del fantomatico Califfato o altra agenzia islamica del terrore, bensì perché eccitati dalla parlantina di un imam radicale – tal Abdel Baki Essati – incrociato sull’uscio di casa nel paesino catalano di Ripoll. Il bombarolo pasticcione che si è fatto esplodere insieme alla bombola di gas con cui voleva allestire l’autobomba degli adepti. Ma anche l’ispiratore dell’ennesima tragedia, prodotta dalla spinta imitativa che motiva menti elementari a questo genere di comportamento (l’assassinio stragista) come via maestra per il proprio riconoscimento. La conquista dell’identità. Nel caso, di martire antioccidentale.

Da inveterato materialista non nutro particolare simpatia per queste interpretazioni degli impazzimenti in corso a base psicologica. Eppure non posso fare a meno di riconoscere l’analisi di Manuel Castells in materia di radicalizzazione del risentimento come un processo di trasformazione che in larga misura avviene nelle menti delle persone: «Le relazioni di potere sono in larga misura basate sulla capacità di plasmare la mente umana mediante il trasferimento di senso attraverso la costruzione di immagini».

Dunque, la costruzione di senso e significati come vero campo della battaglia finale. Conflitti a partire dalla dimensione mentale, che proseguivano innescando materialissimi scontri variamente cruenti, incontrati un numero infinito di volte; dagli scontri etnici alle guerre di religione.

In questi giorni ho per le mani il ponderosissimo tomo “Postwar” dello storico anglosassone Tony Judt (meritoriamente ristampato dall’editore Laterza), che affronta in un lungo capitolo la partita giocata nell’immediato dopoguerra tra il campo occidentale e quello sovietico per conquistare menti e cuori; con Mosca che giocava la carta dell’antifascismo e la Cia che sbagliava ogni mossa per poi vincere a propria insaputa grazie all’irresistibile propaganda indiretta svolta dalla cultura popolare stelle-e-strisce: cinema e musica.

Una capacità di costruire immaginari e fornire modelli di integrazione che assicurò per decenni priorità ed egemonia al fronte occidentale, consolidato sul piano materiale da promesse credibili di inclusione. Processo andato in esaurimento gradatamente fino all’arresto definitivo culminato con l’avvento NeoCon e la folle avventura irachena.

Fatto sta che oggi il mercato delle narrazioni identificanti è stato totalmente abbandonato ai propagandisti di morte e odio, che trovano terreno fertile nelle fragili menti di chi si ritiene (a torto o ragione) vittima di ingiustizie da parte dei vincitori in questa fase della globalizzazione.

Questo per dire che il sottoscritto rimane basito, magari davanti a tragedie come quella dei giorni scorsi a Barcellona, ascoltando l’ennesima riproposizione di soluzioni miracolistiche di stampo rambista; la pretesa di poter anticipare e prevenire impazzimenti individuali o di gruppo nell’immenso pagliaio concimato dalla predicazione fondamentalista.

La folle idea di blindare l’intero mondo occidentale e militarizzare la parte restante.

Eppure è passato solo qualche decennio da quando l’Occidente si ricompattò grazie a un discorso solidale supportato dai piani Unra e poi Marshall che sostennero le popolazioni e proposero un’idea di appartenenza. Il problema è che le classi dirigenti di allora – pur con tutti i loro limiti – pensavano che conquistare le menti era meglio che incatenare i corpi. La politica più efficace della repressione. E agivano di conseguenza. Oggi i più ritengono la segregazione una scelta ottimale. Oltre che praticabile.