Consapevole di dover tenere fede alle aspettative create non ultimo con il precedente “Hand. Cannot. Erase”, parlando del nuovo “To The Bone” Steven Wilson ci aveva tenuto ad anteporre una certa sfiducia nell’essere compreso (e apprezzato) alla maniera di sempre.
Ascoltando la sua quinta prova da solista viene però difficile cogliere quali fossero i motivi di tanta titubanza: “To The Bone” è infatti, prima di ogni cosa, un disco come te lo aspetteresti da Steven Wilson, e tolte alcune sortite un po’ sopra le righe certo non intraprende nessun sentiero nascosto. Si tratta di un’opera a suo modo rassicurante, per nulla spiazzante: dove i proclami (sembrava) di rifiuto del ‘rock’ e ancor più del ‘progressive’ rimangono tali. Le palpitazioni provocate a più di qualcuno con il penultimo, in ordine di tempo, singolo “Permanating” (forse per via di quel falsetto e di quella leggerezza che mai gli sono appartenuti) tornano battito regolare per tutto il resto dell’opera: un disco intenso, epico, ben vestito e cucito ad immagine e somiglianza di uno degli autori più interessanti degli ultimi 25 anni, che nato discepolo si è guadagnato nel tempo la considerazione – alla pari – dei grandi di quella stessa scena che più di altre lo ha forgiato, arrivando in alcuni casi a missarne nuovamente le pietre miliari (Jethro Tull, King Crimson, Yes, Roxy Music).
Interrotta in maniera quasi castrante la fortunata avventura con i suoi Porcupine Tree, Wilson ha proseguito la sua notevole carriera solista iniziata nel 2008 (tenendo fede alla miriade di progetti paralleli che lo hanno sempre contraddistinto) con il primo “Insurgentes” toccando diverse tonalità di progressive e sfociando – in quest’ultimo episodio – in una sorta di tributo/omaggio al meglio della produzione anni ottanta: Kate Bush, Peter Gabriel, Talk Talk, Tears For Fears.
Un quasi-bluff, una boutade che nasconde dietro di sé le ‘solite’ canzoni: impreziosite dalle voci di Ninet Tayeb e Sophie Hunger ma frenate, un tantino, dalla frigidità tipica dei primi della classe. Il malcelato plasticismo di chi, volente o nolente, sa di dover parlare ad un pubblico ben preciso e affezionato riservandosi qualche volo pindarico spesso solo letterale per fare poi fedelmente ritorno alla base. “To The Bone” è in sostanza questo: un ottimo disco, animato però da nessun moto rivoluzionario e, anzi, fin troppo educato. Non un passo indietro ma nemmeno uno in avanti: di lato, forse. La conferma ad altissimi livelli di una mente pensante come poche che, nel 2017, sforna un album comunque da avere. E questa, al giorno d’oggi, suona già come una grandissima notizia. Da ascoltare: “Pariah”, “The Same Asylum As Before”, “Refuge”, “Song Of I”, “Detonation”, “Song Of Unburn”.