E insomma oggi è il 20 agosto e ha inizio il campionato di calcio della serie A. Un evento fondamentale per la nazione, destinato a scandire le settimane e gli umori di gran parte degli italiani.
Ma quest’anno c’è una novità. Alle celebri squadre da album Panini si aggiunge, infatti, per la prima volta nella sua storia, una formazione di nicchia e, per alcuni, geograficamente misteriosa: il Benevento.
E quest’anno alla rovente tifoseria sannita si unisce anche la sottoscritta, la più improbabile tra le croniste sportive, la più assurda tra le reporter calcistiche, la più pigra nelle palestre del pianeta – quando trovo il coraggio di entrarci.
D’altra parte, lo sport non ha mai contraddistinto il mio vissuto così come lo stadio, per me, ha sempre rappresentato una buona location per i concerti rock o, in alternativa, un luogo intorno al quale a Benevento, ogni sabato mattina, spuntano i banchi del mercato –un mercato ad altissimi livelli, tra l’altro, dispensatore negli anni di fantastici outfit e pezzi vintage.
Troppo concentrata a rovistare tra le montagne di indumenti di seconda mano a cinque euro, non ho mai dato peso alla grande struttura che si erge alle spalle della bancarella dei volatili e a quella delle scarpe (oddio, guarda quelle ballerine!), fin quando un inaspettato entusiasmo calcistico ha smosso questa città di provincia, solitamente sonnacchiosa e pessimista, portandola a un insolito stato di euforia deflagrata, poi, nei lunghi fasti per lo sbarco nella massima serie. Ma come è avvenuta questa metamorfosi? Cos’è stato in grado di trasformare radicalmente le persone? Com’è possibile che ora i beneventani sorridano?
Incuriosita, ho studiato allora i testi sacri della religione del calcio, memorizzato le facce dei giocatori, appreso il lessico specifico della disciplina (“daspo”, ad esempio, è una parola bellissima: rimanda idealmente al nome di un antico frutto difficile da trovare oggi al supermercato). Soprattutto, con occhio da antropologo, ho approfondito con interesse i riti della tifoseria e i tratti stilistici della squadra.
Casacca giallo-rossa, stemma con una strega in volo a cavalcioni su una scopa, il Benevento, noto anche come lo Stregone salta, si impenna, e fa impazzire la città al punto che, nell’attesissimo primo giorno della vendita degli abbonamenti per la nuova stagione, ho trascorso nove lunghissime ore in fila, tra una ricevitoria e l’altra, circondata da un’umanità agguerrita e sudata, tra sciarpette bicolore e sonore bestemmie. Col mio abito alla Grace Kelly, ho attraversato corridoi per nulla ameni pieni di slot machine, moquette e luci verdi mentre, in contemporanea, nel parcheggio dello stadio i più coriacei tra i tifosi attendevano, dalla sera prima, l’apertura dei botteghini muniti di sdraio, ombrelloni a strisce e barbecue.
Nulla hanno potuto nemmeno il caldo torrido e la psicosi collettivo-paranoica che, a mano a mano, cominciava a diffondersi tra la folla: la mia tenacia è stata premiata da un “Mò tocca alla signora c’a burzetta!” tuonato da un giovane ultrà paffuto che sovrintendeva, con fare autoritario, all’odine pubblico.
Eccomi qui allora, con la burzetta, l’abbonamento e la tessera del tifoso sigillata dalla più brutta foto mai scattata nella storia, pronta a raccontare, dai distinti, cosa accade tra gli spalti dello stadio del Benevento. Squadre in campo, dunque. Scambio dei gagliardetti. Fischio dell’arbitro. Cominciamo.