Metti un sabato di agosto a Roma, di passaggio. Il sabato della settimana di Ferragosto, con più gente in giro di quanta se ne aspetterebbe la memoria di tempi passati. Metti quell’atmosfera rarefatta dell’estate piena, di cui già vedi la fine, quel momento di passaggio, quasi di disorientamento. Metti di tornare a casa, alle 23, e trovare steso per terra, un uomo che non capisci bene se è vivo o morto, se dorme o se è svenuto. Alto, provenienza intuitiva est Europa, accanto delle buste rotte. Metti che è tardi e la mattina dopo devi partire. La tentazione di decidere che è ubriaco e basta e andartene a dormire è forte. Poi però, vince un altro tipo di istinto. E da qui, la situazione, invece di essere impersonale, quasi surreale, diventa personale, reale.
Dunque, fermo la macchina. Vedo che svariati turisti passano, lo guardano, si guardano, vanno oltre. Poi arriva un ragazzo, un ambulante, nero, carico di roba, che si ferma. Lo scrolla. Gli parla. Si rende conto che è vivo. A quel punto, scendo. Lui mi guarda: “E’ vivo, ma non so se sta bene. Che dici, che facciamo? Chiamiamo un’ambulanza, o i carabinieri qui vicino e vediamo se loro capiscono meglio?”. Io gli dico: “Ok”. Parcheggio. Ci avviamo insieme. Fatto qualche metro, mi fermo, lo scruto e gli dico: “Tu vai, non ti preoccupare, ci penso io”. Lui mi sorride, vedo che respira, sollevato, mi abbraccia: “Grazie, grazie”, ripete, più volte, come se la cosa riguardasse lui. Mi stupisce, mi colpisce. Poi si gira, se ne va. Io completo la missione. Soprattutto grazie a lui.