L’antico aforisma medievale che recita “l’aria delle città rende le persone libere” viene smentito e ribaltato da un paradigma di città sostenuto dalla paura, dal sospetto, dall’isolamento, afferma il filósofo Josep Ramoneda .
L’impatto sulle nostre vite di questa doppia aggressione – quella del terrorismo e quella dell’antiterrorismo – sta modificando, di fatto, l’aspetto dello spazio pubblico delle nostre città, rischiando di mettere in pericolo la finalità e gli aspetti più caratterizzanti della vita urbana: inclusione, anonimato, pluralismo. In seguito all’attentato di Barcellona, e alle minacce dell’Isis per l’Italia – come per la maggior parte delle metropoli europee – si prospetta il ricorso a una “architettura del terrorismo”, che interesserà principalmente gli spazi urbani e della socialità: i centri storici, le piazze, le aree pedonali. A Milano vengono posizionate nuove barriere agli accessi laterali della Galleria Vittorio Emanuele; ma sono in programma barriere antiterrorismo anche per i lungomare di Ostia, Rimini, Riccione, Anzio e Nettuno, Pescara . Blocchi antisfondamento sono in arrivo anche a Ferrara, Savona, Pisa, Torino. A Roma, in via della Conciliazione, i blocchi sono posizionati già da settimane, mentre grandi fioriere sono collocate lungo via del Corso.
Blindare le città ma senza militarizzare: questa sembra essere la raccomandazione del Viminale. Mimmo Paladino, esponente della Transavanguardia, suggerisce l’arma dell’ironia per rispondere ai terroristi: disegnare e collocare barriere con la forma del dito medio di Cattelan.
Boeri, l’ideologo del verde verticale, che ha retrocesso l’architettura a pergolato, mero supporto per rampicanti, propone (inutile dirlo) gli alberi: querce e melograni poggiati su grandi vasi di 2-3 metri di base e un metro e mezzo d’altezza. In questa frenetica concitazione “creativa”, prima di devastare i centri storici italiani con enormi vasi o barriere più o meno ironiche, a nessuno viene in mente di guardare ai sistemi già sperimentati e adottati da Israele, Regno Unito e Stati Uniti (che sono tra le nazioni che meglio di altri hanno sviluppato sistemi di protezione degli spazi pubblici): misure di sicurezza pubblica che comprendono sia grandi blocchi antisfondamento che i discreti, e persino eleganti, dissuasori automatici o semiautomatici per il controllo degli accessi con tecnologie a scomparsa.
Nel frattempo scopriamo che i maggiori centri storici italiani, da tempi non sospetti, da prima ancora che si profilasse l’emergenza antiterrorismo Isis, hanno purtroppo già sperimentato l’estetica sciattona dei delimitatori di aree. Sono sistemi, provvisori ma – come tutto ciò che sembra tale nel nostro Paese – definitivi, che vanno dai nastri segnaletici a strisce bianche e rosse, alle transenne in metallo, alle fioriere in cemento disposte a caso nelle piazze storiche; forse funzionali per proteggere le aree più frequentate dalle persone, ma certamente inadeguate dal punto di vista estetico: una ferita (presumibilmente permanente) a chiese rinascimentali e barocche, scalinate, fontane e monumenti di bellezza e valore inestimabile.
Il filosofo tedesco Karsten Harries, autore di The Ethical Function of Architecture (MitPress, 1997), nel febbraio del 2002 , presso la facoltà di Architettura di Barcellona (Etsab), aveva tenuto una conferenza dal titolo “L’architettura e il terrore” . Egli riteneva che gli attacchi terroristici dell’11 settembre avrebbero aperto un dibattito sull’architettura, poiché avevano dimostrato la vulnerabilità del nostro sistema di vita e anche l’incapacità di costruire fortificazioni che ci proteggano dalla paura .
Ecco, forse più che ingaggiare una corsa all’oggetto da piazzare – alberi, barriere, vasi e fioriere – dovremmo inaugurare una riflessione sulle nostre città e sulla nuova dimensione dell’esistenza – il terrore – più ampia e approfondita.