“Costruiremo quel muro”, anche se ciò porterà alla chiusura del governo federale. La promessa – o minaccia, a seconda di come la si voglia vedere – è arrivata durante il comizio che Donald Trump ha tenuto a Phoenix, Arizona. In uno Stato rosso, davanti alla folla dei sostenitori (quindi nelle condizioni che predilige), Trump ha attaccato i soliti nemici: la “stampa disonesta”, la sinistra, le lobby e la Washington politica che resistono alle sue riforme. E ha ritirato fuori uno dei temi prediletti della campagna elettorale: la costruzione del muro con il Messico. Trump vuole che la costruzione inizi subito, con fondi stanziati all’interno della legge che rifinanzia il governo federale – e che dovrà essere votata entro il 30 settembre. Dato che quasi nessuno, tra gli stessi repubblicani, pensa a dargli quei soldi, Trump si dice pronto a bloccare l’attività amministrativa del governo federale.

Si potrebbe pensare a una delle tante provocazioni verbali di cui è intessuta la carriera politica del vulcanico presidente. In realtà, questa volta, la minaccia appare qualcosa di più di una semplice boutade. Anzitutto perché sulla legge di rifinanziamento si combatterà, nelle prossime settimane, una battaglia feroce e difficile. Il Congresso ha soltanto dodici giorni lavorativi, a settembre, per approvare la misura. I dubbi, le tensioni, gli scontri sono già numerosi. I conservatori non intendono votare alcun aumento al tetto del debito senza che vengano affrontate le cause strutturali del deficit. “L’aumento al tetto del debito deve essere accompagnato da una riforma profonda delle sue cause”, ha spiegato Mark Walker, un deputato del North Carolina che guida l’Ufficio studi repubblicano del Congresso. Se verranno a mancare i voti dei conservatori, la leadership repubblicana dovrà quindi cercare i voti dei democratici, che non hanno però alcuna intenzione di mollare su alcuni punti dichiarati non negoziabili: vedi i fondi per la sanità.

Mentre Mitch McConnell e Paul Ryan sono impegnati a trovare un difficile equilibrio (la chiusura del governo federale sarebbe, per loro, un’umiliazione profonda: l’ultima volta in cui c’è stato un government shutdown, con Casa Bianca e Congresso nelle mani dello stesso partito, è stato nel 1979, ai tempi di Jimmy Carter), piomba sulla scena politica la richiesta, e la minaccia, di Donald Trump: inserire nella legge di finanziamento i soldi per il muro. La cosa è, semplicemente, irricevibile. I democratici non voterebbero mai una legge di questo tipo. “Se il presidente scegliesse questa strada, contro i desideri di repubblicani e democratici, e della maggioranza degli americani, condurrebbe il Paese verso il government shutdown”, ha spiegato il leader democratico del Senato, Chuck Schumer. Finanziare il muro non è del resto una priorità nemmeno della gran parte dei repubblicani. “Non c’è praticamente nessuno qui che chiede il muro a tutti i costi”, ha detto a Politico.com una fonte anonima della Casa Bianca.

Si potrebbe dunque arrivare, nei prossimi giorni, a un compromesso che non scontenti nessuno e che porti a un voto bipartisan. Alcuni democratici potrebbero essere convinti a votare una legge che contenga misure simboliche di finanziamento del muro, in cambio di concessioni su sanità, educazione, investimenti nelle infrastrutture. Sarebbe una misura che non risolve nulla e che rimanderebbe al futuro tutti i problemi: riduzione del deficit, che tipo di tagli fare, come e se costruire il famoso muro. Ma sarebbe, appunto, l’unica strada praticabile per non umiliare la leadership repubblicana e non dare al Paese l’impressione di un Congresso immobile e bloccato.

Il condizionale è però, in questo caso, d’obbligo. Perché Donald Trump potrebbe essere tentato di scegliere, consapevolmente e un po’ brutalmente, la strada della chiusura del governo federale. “Questo Paese ha bisogno di un buon government shutdown”, disse il presidente a maggio, quando il Congresso trovò un accordo temporaneo per finanziare le sue attività fino a fine settembre. A good government shutdown, per Trump, equivarrebbe a dimostrare l’ormai insostenibile livello della spesa, la non volontà dell’élite amministrativa di Washington di riformare se stessa, la paralisi legislativa del Congresso. Sono tutti temi che Trump ha rilanciato in campagna elettorale, che hanno infiammato la sua base più populistica e conservatrice, e cui ora il presidente dà nuovo vigore collegandoli a un altro dei temi principe della sua retorica: quello dell’immigrazione incontrollata e della necessità del muro.

Soltanto le prossime settimane diranno chi vincerà la battaglia; se si andrà verso lo scontro totale o si troverà una qualche forma di compromesso. E’ però abbastanza chiaro che la battaglia sul government shutdown segna un momento di non ritorno nei rapporti tra il presidente repubblicano e il suo partito. Strategie e retorica di Casa Bianca e Congresso sono ormai sempre più lontane. Tra i nemici additati da Trump a Phoenix non c’erano soltanto stampa e sinistra, ma anche i repubblicani – il senatore John McCain, definito dal presidente in modo sarcastico “un voto”, l’altro senatore Jeff Flake, che “nessuno sa chi diavolo sia” – che gli impedirebbero di perseguire la sua agenda legislativa.

Di questo ormai profondo scollamento è del resto espressione significativa lo stato dei rapporti con lo speaker del Senato, Mitch McConnell. McConnell è stato un alleato leale di Trump per gran parte di questi ultimi mesi. Ha cercato in ogni modo di far approvare la nuova riforma sanitaria. Si è battuto per ottenere il voto positivo sul nuovo giudice della Corte Suprema, Neil Gorsuch, e ha appoggiato buona parte delle politiche di Trump, da quelle per bloccare l’immigrazione alle proposte per riformare il sistema delle imposte.

Nonostante tutto, McConnell è diventato, progressivamente, poco gradito alla Casa Bianca. Trump, poco a suo agio con manovre e sottigliezze della politica di Washington, ha cominciato a pressare pubblicamente McConnell; a considerarlo responsabile dei fallimenti della sua agenda legislativa. “Mitch, torna a lavorare e porta la riforma sanitaria, quella delle tasse e una legge sulle infrastrutture sul mio tavolo per la firma”, ha twittato il presidente. Stanco delle continue esternazioni, di cambiamenti di rotta imbarazzanti, di una pioggia di tweet che rappresentano umori personali più che politiche, McConnell è esploso. Ha detto ai giornali che Trump probabilmente non capisce come funziona la macchina della politica; ha detto privatamente ai suoi che non sa quanto questa amministrazione potrà andare avanti (tra i due, McConnell e Trump, ci sarebbe anche stata una telefonata finita con lo scambio di pesantissimi insulti).

Con l’inchiesta del Russiagate che pesa pericolosamente sulla sua testa, in difficoltà per tutto quello che ha promesso e non ha fatto, Trump potrebbe dunque essere tentato di tornare a essere, sempre di più, quello che è stato in campagna elettorale: un battitore libero contro repubblicani e democratici, un sovvertitore delle regole di Washington, il tribuno che parla direttamente alla sua base senza bisogno di mediazioni istituzionali e bon ton linguistico. La sua base, appunto, continua ad appoggiarlo. Lo mostrano gran parte delle rivelazioni di questi giorni e l’entusiasmo con cui è stato accolto a Phoenix. Battersi per il muro, mandare all’aria il governo federale, svillaneggiare l’aristocrazia politica di Washington, potrebbe essere un buon modo per tornare a “fare Trump”.

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