Dopo una fase iniziale contraddistinta da un implicito laissez faire, ora le autorità cinesi hanno deciso di rendere legale la coltivazione: si tratta di un affare non di poco conto per la popolazione locale e per le amministrazioni
In appena cinque anni, potrebbe arrivare a raggiungere un valore pari a 100 miliardi di yuan (circa 15 miliardi di dollari). E nella più completa legalità. Il futuro dell’industria cinese della cannabis sembra anche più roseo rispetto a un passato caratterizzato da una tacita accondiscendenza delle autorità a fronte di cospicui guadagni per la popolazione locale. Secondo una recente inchiesta del South China Morning Post, riuscendo a schivare i riflettori mediatici, la Cina è silenziosamente diventata uno dei principali produttori di cannabis al mondo, passando da una fase iniziale contraddistinta da un implicito laissez faire alla piena regolamentazione della coltivazione in alcune aree circoscritte: ad oggi, previa richiesta di un’apposita licenza, la coltura della canapa è permessa soltanto nello Heilongjiang (dallo scorso anno), nel nordest cinese al confine con la Russia, e nella provincia meridionale dello Yunnan, dove il settore risulta normato fin dal 2003.
Stando ai dati ufficiali dell’Ufficio nazionale di statistica, messe insieme le due regioni contano per quasi la metà delle piantagioni di canapa destinate legalmente ad uso commerciale a livello mondiale. L’estensione esatta delle coltivazioni – così come la produzione annua (lecita e illecita) – rientra tuttavia tra gli irrivelabili “segreti di stato”. Nota nell’ex Celeste Impero fin dalla dinastia Shang (1600-c. 1046 a.C.) per il suo utilizzo nella fabbricazione di un prototipo della carta, la cannabis continua a sedurre Pechino con la sua versatilità: laddove i gambi delle piante trovano una loro funzionalità nell’industria tessile, le foglie finiscono nel settore farmaceutico mentre i semi vengono acquistati dalle aziende alimentari per la produzione di snack, olio da cucina e bevande. Per il governo centrale, mantenere vivo il lucroso business è una questione di stabilità interna e prestigio internazionale.
La preziosa pianta è, infatti, una fonte di facile guadagno per le comunità rurali: la canapa rende più di 10mila yuan (1.500 dollari) per ettaro – rispetto alle poche migliaia generate da colture più comuni come il mais – ed essendo quasi immune all’attacco di parassiti non richiede l’utilizzo di costosi pesticidi. Tanto che, stando alla Yunnan Academy of Agricultural Science, fiutando l’affare, negli ultimi anni buona parte della popolazione locale coinvolta nella produzione del lino si è convertita alla cannabis. Le possibili ripercussioni sociali di un inasprimento del quadro normativo in materia lasciano le autorità con le mani legate, nonostante la consapevolezza dell’esistenza – soprattutto nel Jilin e nella Mongolia Interna – di piantagioni irregolari di canapa e marijuana, entrambe derivati della cannabis sativa ma differenti per quantità del componente psicoattivo THC (tetraidrocannabinolo) – secondo gli standard internazionali valori superiori allo 0,3% vengono considerati “pericolosi” per la salute.
Così, se sulla carta la legge cinese minaccia sanzioni tra le più severe al mondo (chiunque pizzicato in possesso di oltre 5 chili di foglie di marijuana lavorate, 10 chili di resina o 150 chili di foglie fresche rischia la pena di morte), la coltivazione di varietà con un basso contenuto di THC – salvo eccezioni particolari come nel caso della turbolenta regione autonoma dello Xinjiang prossima all’Afghanistan – vengono generalmente tollerate per quieto vivere. E interesse nazionale. Fin dagli anni ’70, la canapa è diventata oggetto di sforzi concertati di ricercatori e militari, sfociati nel corso dei decenni nello sviluppo di specie ibride in grado di sopravvivere alle temperature estreme dello Heilongjiang così come del deserto del Gobi. All’epoca, la pianta si rivelò salvifica per le truppe cinesi dislocate in Vietnam grazie alle sue fibre resistenti e traspiranti impiegate nella realizzazione delle uniformi.
Secondo la World Intellectual Property Organisation, ormai sono oltre 600 i brevetti “made in China” sulla cannabis, molti dei quali pensati per il mercato internazionale, dove le compagnie occidentali stanno muovendo i primi passi. Un esempio: un farmaco per curare i disturbi post-traumatici da stress su cui stanno lavorando in tandem il pechinese Hemp Investment Group e l’Esercito popolare di liberazione. Con succursali negli Stati Uniti, la società cinese punta a mettere radici in Israele, Canada, Giappone ed Europa fino a inglobare tutti gli oltre sessanta paesi membri del progetto “Nuova Via della Seta”, una cintura economica attraverso l’Eurasia con la Cina a fare da traino. Altri tempi quelli in cui “Silk Road” era soprattutto il nome di un vecchio sito per la vendita online di stupefacenti.