Gestazione produttiva durata dieci anni, con il fondamentale apporto di Stefania Cella, la set designer de La Grande Bellezza, Downsizing è uno di quei dolci che in vetrina sembrano appetitosi poi una volta a casa non sanno di nulla
Parte maluccio la Mostra del Cinema di Venezia edizione 74. E non per mancare di rispetto a chi probabilmente nel lavorare ci mette impegno, dedizione, e magari ha pure condivisibili idee sul mondo, ma Downsizing di Alexander Payne, film d’apertura, in Concorso qui al Lido, è davvero poca cosa. Un film tutto racchiuso nel già rimpicciolito senso del suo titolo, con un’intuizione buffa iniziale e un’imbarazzante ammosciarsi narrativo e visivo da circa metà film, fino ad una conclusione in cui letteralmente film, idea e afflato poetico spariscono. Non tutte le ciambelle riescono col buco. Nulla di che disperarsi. Anche se le precedenti ciambelle firmate Payne erano state cotte e vendute con buchi enormi da una critica mainstream di manica larghissima. Gestazione produttiva durata dieci anni, con il fondamentale apporto di Stefania Cella, la set designer de La Grande Bellezza, Downsizing è uno di quei dolci che in vetrina sembrano appetitosi poi una volta a casa non sanno di nulla.
Protagonista assoluto è Paul Safranek, un Matt Damon dalle tempie ingrigite e con una pancetta da primato, terapista occupazionale, ovvero colui che dà consigli posturali per lavorare meglio agli operai di un’enorme macelleria posizionata nella sempiterna Omaha (Nebraska) tanto cara al regista Payne. Paul e la moglie Audrey vengono a conoscenza in diretta tv mondiale dell’esperimento di rimpicciolimento di esseri umani avvenuto in un laboratorio norvegese. Sono una ventina i mini ometti, e se ne stanno tutti belli e felici, alti che pochi centimetri, tra casette e automobiline lillipuziane. Bingo, gridano i sonnecchiosi abitanti della terra. Occupare meno spazio, consumare meno cibo e produrre pure meno rifiuti, cancellerà la crisi di sovrappopolazione. Ma soprattutto, ed è questo che convince Paul e Audrey a cambiare vita e farsi piccolini anche loro, andare a vivere a Leisureland, un comprensorio di umani piccini piccini che si sta sempre più espandendo nel New Mexico, significa non avere più problemi economici. Già perché i dollari “giganti” del nostro mondo laggiù valgono il quadruplo. Solo che qualcosa nella trasformazione fisico-corporea della coppia, assistita da un vero e proprio plotone medico-sanitario che brulica alla Willy Wonka di Burton, e che rasa ogni pelo, toglie ogni capsula dentale o protesi artificiale a coloro che trapassano, non va come dovrebbe. E soprattutto Leisureland diventa uno spazio sociale, culturale ed economico identico a quello di partenza, soprattutto nelle differenze di classe, con tanto di muri alle frontiere, terroristi e miniaturizzazione usata come punizione per chi compie proteste politiche.
Un po’ satira sociale, un po’ fantascienza, e tanto humor spompato, Downsizing prende subito la strada della novità, del racconto originale, della scoperta della miniaturizzazione e relativa applicazione in un reale nostro e attuale. Ma una volta superato il fascino stuzzicante dell’effetto “sproporzione”, la storia s’impantana proprio dentro al megaminimondo dove Paul incontra un vicino serbo (??) caciarone e trafficone, interpretato da Christoph Waltz (premio “fuoriparte” a Venezia 2017 subito); la dissidente vietnamita Gong (Hong Chau); e il terrificante cameo di un capitano di una barca a cui, per debito cinefilo di Payne, viene conferito il volto di Udo Kier. Quanto è stato più linguisticamente diretto e meno mediato dalla creatività il racconto minimal di Nebraska o Paradiso amaro, tanto è complicato il trapasso espressivo ed immaginifico nella Lilliput fantasiosa di Payne. I tempi del racconto si dilatano all’inverosimile; molte inquadrature in sottofinale tra i fiordi norvegesi sembrano come essere tirate formalmente via; mentre il nocciolo del racconto a livello tematico che Downsizing sembra suggerire, quello del cambiamento climatico senza controllo o dell’etica di un aiuto generoso verso chi sta peggio, si sfalda in mille rivoli di scrittura facendo naufragare comprimari e tono generale del discorso. Inutile cercare infine parole o commenti di regista, attori, sceneggiatori e produttori in una delle conferenze stampa della storia del Festival più inutili da sempre. I giornalisti, o presunti tali, ci hanno provato a fare domande per dare linfa all’insipido ciambellone di film, ma alla fine Payne e compagnia, forse un po’ risentiti della tiepidissima accoglienza in sala postproiezione, hanno evitato ogni possibile riferimento al senso dell’operazione. Peccato. Perché il povero e piccolo Downsizing in piedi da solo proprio non riesce a starci.