S’intitolano The Shape of water e First Reformed e sono film che non dovete perdere per nulla al mondo. Paul Schrader e Guillermo Del Toro incantano il Concorso della 74esima Mostra del Cinema di Venezia 74 dopo il passo falso di Downsizing in apertura di festival. Due approcci al cinema molto differenti, ma egualmente affascinanti e coinvolgenti, che le urgenze temporali delle anteprime mondiali di produzioni statunitensi al Lido, soffiate al Festival di Toronto, mettono uno dietro l’altro. Fa niente. Una scorpacciata di capolavori ogni tanto fa bene.
The shape of water, ad esempio, fa riemergere davvero un mostro in laguna. Una creatura robusta con pinne, branchie e occhi dolcissimi, che proviene dalle acque del Sudamerica, venerato come un re, finito incatenato nel 1962 in un vascone sotterraneo di Baltimora per esperimenti segretissimi del governo americano in piena corsa verso lo spazio. In orbita dopo la cagnetta sovietica Laika potrebbero mandarci lui, ma i russi, e una donna delle pulizie muta (Sally Hawkins quanto è magnificamente sensuale anche a 41 anni?), scombinano i piani dei torturatori in camice bianco. I mostri siamo noi e non loro sembra suggerire il testo del film.
Diversità e alterità, rappresentate dalla creatura come freak, dalla protagonista muta, dal vicino di casa omosessuale, dalla simpatica afroamericana collega di lei, sono messi in scena senza didascalismo pedagogico, senza lezioncine, ma veicolati invece dalla forza imponente delle immagini. Ballano e fanno l’amore la Bella e la Bestia, intonano nel loro mutismo un amore eterno e fluttuante, giocano alla fuga, vincono comunque sul male putrefatto, incancrenito, meccanico e ottuso (magistrale il tutore dell’ordine aziendale/mondiale Michael Shannon). Ma non c’è storia senza visione, colore, set, creazione. E Del Toro, di questo elemento strutturale ed espressivo del fantasy, ne è forse il migliore realizzatore nel cinema odierno.
The shape of water, il peso di un’acqua che alla fine è leggera come un sogno magnifico di riscatto e sentimenti, e che non risparmia comunque dettagli truculenti e sanguinolenti, è quindi una meravigliosa dettatura pittorica che viene prima di ogni altro aspetto significante del film. Lasciamo parlare Del Toro: “La palette di colori è già narrazione. La protagonista è immersa in una casa dai colori subacquei, azzurri, con i muri corrosi; il vicino con cui divide mezza finestra dello schermo e metà piano della casa ha sempre una luce dorata nel suo appartamento irradiata ad ogni ora del giorno. Non esiste il colore rosso se non dentro una sala cinematografica, nelle scarpe e nel cappotto della protagonista quando s’innamora. Nei miei film pongo sempre per prime le fondamenta visive di ciò che farò poi da lì allargo il lavoro ai collaboratori”. Bisognerebbe chiamarlo autore, Del Toro, anche se questo concetto non va più di moda. Come non va più di moda pensare al cinema come strumento politico: “La fantasia è un genere estremamente politico. In questo mondo gravido di un cinismo pazzesco è un dovere alzarsi la mattina e credere nell’amore. Io sono messicano e so cosa significa essere visti come ‘l’altro’ ”, spiega il regista dopo aver ricevuto un’ovazione sia in conferenza stampa che dopo la proiezione mattutina del film. L’enorme pescione interpretato da Doug Jones è infine il soggetto/oggetto magnetico, malefica creatura e taumaturgica apparizione: “Questo film è un Teorema di Pasolini con un pesce”. Come non si può voler bene a Del Toro?
Tormento ed estasi invece per il calvinista Paul Schrader. I suoi incubi peggiori, i dilemmi della fede e dell’esistenza sono stati incarnati da singoli individui diventati script che hanno fatto la storia del cinema (Taxi Driver, L’Ultima tentazione di Cristo), ma anche suoi film da regista (Auto Focus su tutti). Ebbene, in First Reformed Schrader sceglie senza mezze misure un raffronto oggettivo con Il Diario di un curato di campagna di Bresson e Luci d’Inverno di Bergman senza sfigurare affatto, anzi attualizzandone la figura centrale del prete in crisi esistenziale, dell’uomo di fede che si fa Giobbe, all’interno di una macrostruttura socio-politica di una disfatta America odierna. Ambientalismo estremista, pessimismo cupo sulla fine del mondo, sfida anticapitalista e moralità dell’individuo, cinema anticonvenzionale, forma e contenuto fusi in un unico crogiolo di stile, carrellata austera sui titoli di testa per entrare in questa chiesetta tra le più antiche della costa Est tanto che se ne stanno per celebrare i 250 anni dalla costruzione. Piccola e nascosta sono la cappella più alloggio del reverendo, casuale approdo di qualche turista, sei fedeli durante la messa, mentre a finanziarne le attività è Abundant Life, monumento aziendale della fede via tv con un pastore afroamericano che pare più un manager che un Cristo. Ci pensa padre Toller (un Ethan Hawke incredibile, assolutamente da Oscar) a vivere sul suo corpo il martirio, le stigmate fisiche impresse nella carne e nel sangue di un irrisolto rapporto con Dio. Quando è poi la giovane incinta Mary (Amanda Seyfried, sempre una forza della natura in fatto a sensualità) a chiedere al prete di parlare al fidanzato, un giovane ambientalista totalmente coinvolto in battaglie radicali antiestablishment, tanto da essere finito in galera, per convincerlo sommessamente a non fare sciocchezze e a tenere il bimbo che verrà (“Dio ci perdonerà mai di quello che abbiamo fatto alla terra?”, chiede il ragazzotto), il credo di Toller vacilla e gradualmente comincia ad incarnare la deviazione antisociale del ragazzo.
Rigore formale straordinariamente bressoniano, con un quadro stretto in 4:3, per comprimere emozioni e fughe oltre i bordi risicati dello spazio, oscurità dell’anima, dell’altissimo, e delle stanze abitate da Toller, che richiamano lo Sven Nyqvist bergmaniano direttore della fotografia, l’unico “buco” che il regista americano concede al protagonista è proprio quello della possibilità di un salvifico amore improvviso almeno nella fede… dello spettatore. “Non credo che l’umanità possa sopravvivere a questo secolo”, ha spiegato Schrader accolto anche lui calorosamente dal pubblico e dalla critica. “Tutti gli esperimenti che abbiamo compiuto in centinaia di anni sulla terra ne hanno esaurito le risorse naturali. È l’umanità ad essere diventata un problema. Io mi considero fortunato perché la mia generazione ha vissuto l’era dei baby boomers, senza il pericolo delle guerre. Ma purtroppo abbiamo guastato il pianeta contro i nostri figli e nipoti che verranno”.