Scuola

Università, giusto lo sciopero dei docenti: il blocco salariale è il simbolo dell’attacco all’istruzione

Che cosa vuol dire investire in istruzione, università e ricerca? Certo non alimentare e sostituire con annunci e promesse (sempre mancate) la sempre più retorica e rarefatta (ahimè) missione istituzionale di presidio della formazione democratica e inclusiva dei cittadini. Vuol dire, invece, epurare tale missione dalle manipolazioni e strumentalizzazioni cui è stata sottoposta, in specie negli ultimi 20 anni, e restituirle il suo significato.

L’inedita e opportuna mobilitazione dei docenti universitari che sciopereranno contro il blocco degli scatti stipendiali del periodo 2011-15 (tutti gli altri contratti del pubblico impiego sono stati sbloccati all’1 gennaio 2015) non dovrebbe appellarsi alla “dignità della docenza universitaria”, ma alla dignità dell’università tout court. Dalla riforma di Berlinguer in poi la formazione universitaria ha subito un attacco senza precedenti, parallelo al più esteso processo di impoverimento intenzionale di tutto il settore della conoscenza, bersagliato da riforme risibili dal punto di vista didattico e scientifico e da tagli di risorse continui, sistemici e perciò drammatici, condizionando anche rinnovi contrattuali e salari: la docenza in Italia è tra le meno valorizzate (socialmente ed economicamente) tra i Paesi di quell’Europa alla quale chi ci governa si riferisce solo quando si tratta di stringere la borsa.

Parliamo, insomma non soltanto di una pur legittima rivendicazione salariale, ma dell’intera esperienza e valenza della università pubblica nel nostro Paese, come più volte ha sottolineato Forges Davanzati, professore di Economia politica all’Università del Salento, tra i più lucidi animatori della protesta. Ci troviamo davanti ad un vero e proprio attacco al sistema formativo pubblico, che con miopia non tiene conto dello stretto legame tra crescita economica e estensione di conoscenza, ricerca e innovazione. Un Paese che taglia università e istruzione non solo – come si è soliti giustamente dire – taglia sul proprio futuro, ma azzera le possibilità di attività di ricerca: ciò che qualifica in massimo grado un sistema formativo.

I governi hanno violato con metodo la dignità degli studi universitari, rendendo il percorso sempre più confuso e costoso, depotenziando motivazione dei docenti e qualità della prestazione scientifica e didattica, insidiata da penuria di personale e da continua burocratizzazione dei mansionari, così come è accaduto nella scuola dello Stato; hanno penalizzato l’interesse generale di un Paese, perché continua a mancare un progetto culturale alto e ampio, che individui nella preparazione dei giovani non solo il suo obiettivo professionale, ma anche l’aspetto più qualificante delle istituzioni formative della Repubblica. Sostiene Forges Davanzati: “Un docente universitario dovrebbe fare didattica, ricerca, occuparsi di pubblicazioni su riviste specializzate, tenere i rapporti con il territorio ed assumere incarichi istituzionali: tutto questo noi lo facciamo con stipendi bloccati da 6 anni e nella sostanziale impossibilità di fare ricerca perché mancano i fondi per acquistare libri, partecipare a convegni e abbonarsi a riviste specializzate. La ricerca è la precondizione per fare didattica, le ricadute in termini qualitativi sono immediate e quindi, vista in un’ottica più generale, la nostra protesta comprende anche i diritti degli studenti che non possono contare su una didattica di alto profilo”.

Non dunque interessi corporativi – come acriticamente può credere un’opinione pubblica manipolata ogni giorno dagli strilloni del potere – ma un vulnus alla democrazia e al futuro dell’Italia. Nella scuola pubblica si introduce una logica non solo competitiva, ma subordinata in modo sempre più dequalificato a un lavoro inteso come merce e non come fondamento della Repubblica e della dignità della persona. Nell’Università si profila una riduzione del numero dei laureati strumentale al mito neoliberista della flessibilità: scelta efficace, considerato il crollo delle immatricolazioni negli ultimi anni, scioccante segnale di declino culturale collettivo e di perdita di progettualità individuale.

Certo, va aperto un dibattito sull’università – e la mobilitazione, che si profila lunga e partecipata, offrirà spunti significativi; ma – ancor di più – vanno rilanciati, mediante un’alleanza esplicita e duratura tra scuola e università pubbliche, principi e valori del diritto all’apprendimento come strumento di partecipazione democratica, di consapevolezza delle scelte e di emancipazione degli individui. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da settarismo e divisione delle istanze, che non hanno saputo cogliere la piena identità di scopo tra le politiche di Berlinguer, di Moratti, di Gelmini e di Renzi-Giannini-Fedeli sul sistema formativo: competitività, valutazione discrezionale, riduzione di libertà di insegnamento e diritto a studio e apprendimento. Il progetto della conoscenza sul libero mercato è ormai invece così sfacciatamente palesato che non resta che unire le forze, nella consapevolezza di rendere un responsabile servizio alla collettività.