Diritti

Chiesa e migranti, quali sono le responsabilità del ‘Primo mondo’ sul Terzo

Bisogna andare a scorrere le pagine di Avvenire per trovare un’analisi del grande fenomeno delle migrazioni dall’Africa, che non sia l’ennesima ripetizione delle frasi che inondano la stampa nazionale: “Fermiamoli, accogliamoli, blocchiamo il flusso. Aiutiamoli a casa loro”. Sul giornale dei vescovi leggiamo questa settimana che l'”emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo ancora parte attiva, addirittura suoi artefici”. Interessanti queste parole, perché strappano il velo della rimozione che sembra annebbiare la stragrande maggioranza degli editorialisti e dei dirigenti politici e quindi gran parte dell’opinione pubblica: in una sorta di incoscienza, tipica di chi guarda gli sconvolgimenti prodotti da un ciclone e si chiede come mai sia potuta accadere una “calamità” del genere.

Secco e apparentemente provocatorio l’intervento pubblicato da Avvenire : “Aiutiamoli, a iniziare da casa nostra“. E se ci fosse una corresponsabilità del Primo mondo in quella che papa Francesco ha definito la più grande catastrofe umanitaria dopo la II Guerra mondiale? Diceva il grande storico inglese del Novecento Eric Hobsbawm che Giovanni Paolo II (nei suoi documenti sulla dignità del lavoro e la necessità di una globalizzazione dal volto umano ma anche nella sua opposizione alla guerra imperiale di Bush contro l’Irak) doveva essere considerato l’ultimo socialista del secolo scorso. In realtà è tutta la dottrina sociale della Chiesa cattolica da Giovanni XXIII in poi, da Paolo VI con l’enciclica Populorum progressio, e comunque nell’escalation di interventi dei due pontefici geopolitici Karol Wojtyla e Jorge Mario Bergoglio (ma anche papa Ratzinger nell’enciclica Caritas in Veritate) a porre nell’epoca contemporanea il grande tema del “bene comune” cioè del carattere etico-sociale dei rapporti economici e politici, delle implicazioni sociali della finanza, del degrado sociale causato dalle devastazioni dell’ambiente. In una parola, della “socialità” o al contrario del carattere di mera potenza e di rapina dell’organizzazione economica.

In questo quadro, l’autore dell’articolo, Francesco Gesualdi ricorda sul giornale cattolico che l’emigrazione africana è strettamente connessa al problema dei rapporti commerciali e finanziari che i Paesi sviluppati hanno instaurato con le classi dirigenti dei Paesi africani in un contesto di “sostegno a sistemi di corruzione e di rapina”. Gesualdi mette in fila una serie di dati, che sono sotto gli occhi di tutti ma che vengono sistematicamente dimenticati perché scomodi. L’assenza di accordi commerciali che garantiscano prezzi equi e stabili ai produttori, la mancanza di freni alla finanza speculativa sulle materie prime, la pratica permanente di “accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e le loro terre”, l’impunità per le imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali.

Sempre nel contesto di quei dati, che basta mettere insieme per avere un quadro reale della situazione (e che per questo motivo, per non disturbare un’economia di rapina, vengono lasciati a galleggiare sparsi nei documenti più diversi) si può leggere su Avvenire l’apparente paradosso della Nigeria. Dei 181mila profughi, che sono approdati in Italia nel 2016, il 21 per cento proveniva dalla Nigeria. Eppure la Nigeria possiede enormi ricchezze grazie alla produzione del petrolio. Non ci vuole Sherlock Holmes per scoprire il mistero. Basta la testimonianza di Lamido Sanusi, ex governatore della Banca centrale nigeriana: nel solo biennio 2012-2013 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari (proventi del petrolio) e incanalati in conti cifrati privati nelle banche occidentali e in paradisi fiscali. Agli stati, ai governi che oggi si riuniscono allarmati per arrestare la valanga dei disperati, che si riversano sull’Europa, evidentemente sta bene così. Per non disturbare i manovratori economici e finanziari.

Non c’è bisogno di essere “socialisti” per cogliere ed analizzare questi nessi e i loro effetti rovinosi. Basta avere la lucidità e la sensibilità di quanti nel secolo scorso inventarono l’economia sociale di mercato, capendo che il progresso economico non si può fondare stabilmente sul vulcano rappresentato da una massa di sfruttati. Oggi la prospettiva di una nuova “economia sociale di mercato” va costruita nella dimensione della globalizzazione. Come dice papa Francesco, l’”inequità” finisce per produrre esplosioni che nessuna forza di polizia potrà reprimere.