Mentre gran parte della piccola audience che l’Italia letteraria agostana e alfabetizzata può permettersi è lì a scandalizzarsi a proposito di ciò che legge, o non ha letto, l’infinito gregge di romanzieri, neo romanzieri e promesse del romanzo nostrano (anche se, in linea di principio, cosa abbia letto uno scrittore a me interessa solo dopo aver deciso se mi interessa ciò che ha scritto), la poesia italiana, fuori dai riflettori, ha continuato la sua viandanza artistica.
Va lenta, certo, come un pellegrino; non ha i motori a reazione della consorella ricca, ma prosegue verso la sua Santiago. Comunica poco, ma cammina tanto.
Peraltro, qualcuno ne parla: per esempio Simonetti, sul Sole 24ore, quando s’interessa delle forme ibride in letteratura, e poi un informato e vasto intervento di Vaglio su Gli Stati generali.
In entrambi i casi si nota la tendenza ormai chiara di vasti settori della poesia a farsi performativi, multimediali, ibridi. Il romanzo affanna dietro, prigioniero del libro, nonostante qualcuno attrezzi tamburi, viole e putipù per auto-trasformarsi la lettera in spettacolo, peraltro, a volte, con esiti non del tutto insignificanti.
Io di mio provo qui a fornirvi una telegrafica rassegna di alcuni bei libri e dischi di poesia usciti in questo 2017 e che sono sulla mia scrivania. Arbitraria, ovviamente, e limitata criticamente a pochi tratti veloci, ma che mi pare confermi le due tesi qui implicitamente proposte: che la poesia stia mostrando una capacità formale, espressiva e di riflessione nettamente superiore alla prosa di romanzo (ed anche alla critica, ahimè) e che essa stia ormai iniziando a sentirsi sempre più libera di sperimentare in dialogo con altre forme artistiche, raggiungendo risultati formalmente rilevanti.
Iniziamo dai più noti ed esperti.
R. Lo Russo, insieme al filmaker e musicista D. Vergni esce con Controlli (libro +DVD, MilleGru), due lunghi poemi dedicati al tuffatore per eccellenza (Di Biasi) e al grande poeta persiano Hafez. Oltre alla solita qualità delle forme letterarie, il video dedicato a Hafez è un piccolo capolavoro di contrappunto tra voce (spesso trattata) e percussioni, a volte frenetiche, a volte frementi, che potrebbe essere proposto come esempio di come si strutturi un rapporto corretto, efficace, tra ritmi prosodico-poetici e ritmi musicali. Come si debba stare in “bilico” tra voce e suono.
Mario Bàino, nome noto quanto riservato della generazione degli anni 50, con Prova d’inchiostro e altri sonetti (Aragno) conferma tutta la sua maestria letteraria nel confronto con le forme chiuse; il “mattopardo” che qui si esprime è ormai sufficientemente maturo e scaltrito da potersi permettere un omaggio tanto sincero, quanto ironico all’Ipersonetto di Zanzotto, senza rinunciare a lavorare sullo schema obbligato, rinnovandolo e tendendolo sino al limite dello strappo. Con qualche melanconia, che pare qui esser proposta come condizione obbligata della contemporaneità e che è presente anche nell’ultimo libro (pur lavico, “revertiginoso”, ‘barrocco’) del suo quasi coetaneo Tommaso Ottonieri, Geodi (Aragno), uscito già nel 2015, ma che continua a parlare con spietata lucidità (linguistica e di pensiero) a e di questo nostro ormai “cernobiliare” presente.
Operazione coltissima, accurata, a volte ironica, con buoni esiti formali è Esercizi di vita pratica di Gilda Policastro (Prufrock), in cui l’analisi chirurgica della quotidianità usa la lingua come strumento acuminato, alla ricerca delle crepe della comunicazione, senza negarsi repentini cambi stilistici ed esperimenti spesso felici di ready-made, quando l’oralità ascoltata delle frasi della comunicazione ordinaria si fa testo che evidenzia la crepa della contraddizione, il vuoto muto che sta tra dire e comunicare. Meno convincenti – imho – gli esperimenti sonori che accompagnano. La sonorità, spiccatamente ‘rumoristica’, ‘fa ambiente’, più che interpretare la ‘dinamica’ della lingua e la vocalità messa in campo non sempre è impeccabile, probabilmente anche a causa di una certa riottosità del testo all’oralizzazione.
Still life (Miraggi) di Adriano Padua, è un vero e proprio brogliaccio da performance, una paradossale messa in azione (ritmica) di nature morte, attorno alla mancanza e all’incapacità della lingua di dirla appieno. Una perizia metrica ormai smaliziatissima fa da struttura a una topica disperata, aggressiva, scomoda: una cifra inconfondibile del poeta siciliano. Peccato non averne la versione sonora e musicale, che pure esiste su palco.
Anche Mariasole Ariot in Anatomie della luce (Aragno), diario tesissimo di un io che vuole farla finita con l’io, espande il verso, un verso che si allunga a dismisura, ma non scompare del tutto. La fàtica che intride felicemente ogni poro, un accumulo continuo di richieste di contatto, ne fa poi uno spartito in nuce, che sarebbe interessante far nascere. Il libro si struttura come un dialogo tra parole e immagini, scatti fotografici della stessa autrice, che a volte non è essenziale, pur essendo sempre piuttosto calibrato.
Il Piccolissimo compianto all’incompiuto (libro+CD, Besa) di Marthia Carrozzo è una bella e intensissima rilettura poetica di una serie di personaggi omerici (Achille, prima di tutto) in cui la dizione serrata e convincente rende ancora più chiaro il pregevole lavoro metrico e prosodico che presiede ai testi, che ci mostrano un campionario sgomento della grandezza irrefutabile di chi sbaglia per amore, a sottolineare che il poeta narra, anche se non racconta storie messe in trama, non rappresenta, ma presenta.
Dome Bulfaro con il suo Marcia film (libro + DVD, Scalino) ci rammenta, con la sua esecuzione letteralmente ‘in corsa’, che la poesia e la cultura per millenni ce le siamo tramandate in piedi, camminando, passeggiando, a volte correndo, appunto, non da seduti. Il volume riunisce una serie di brani ormai ‘storici’ del performer monzese e nuove proposte. Come sempre la cifra è quella dell’energia espressiva, coniugata con un uso sapiente e a volte spiazzante dei versi parisillabi, alla ricerca di un’anaforicità sonora ai confini del mantra.
Ma la rassegna non sarebbe completa se non consigliassi a chi ha dubbi sulla capacità di riflessione e autoanalisi dei poeti italiani, la lettura dell’autocommento che Andrea Inglese riserva su Nazione Indiana alla sua ultima produzione. Uno spaccato interessantissimo del laboratorio di pensiero e di ricerca che è dietro ogni forma poetica, un laboratorio tanto linguistico, finzionale e formale, quanto politico, ovviamente.