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I migranti, l’Europa e le nuove linee di amicizia

Nel 1559 Francia Spagna e Inghilterra siglarono un trattato di pace che metteva fine alle guerre d’Italia e che di fatto definiva il diritto europeo, le nuove relazioni internazionali sul suolo del Vecchio continente al nascere degli Stati moderni, la legittimità delle pretese coloniali sui territori di nuova scoperta. Una ‘clausola segreta’ di questo trattato, firmato in due giorni consecutivi nella località francese di Cateau-Cambrésis da Elisabetta I d’Inghilterra, Enrico II di Francia e Filippo II di Spagna, stabiliva le cosiddette ‘linee di amicizia’, di cui dirò fra poco.

Prima di esse, però, a tentare una sistemazione spaziale del dominio (europeo) sul globo fu Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, che nella bolla Inter Caetera (‘ratificata’ poi dal Trattato di Tordesillas) stabilì la raya, cioè la riga che separava le linee di influenza (e di conquista) spagnola e portoghese: si trattava di un meridiano, dunque una linea che correva dal Polo Nord al Polo Sud, distante cento leghe dalle isole Azzorre e di Capo Verde, mediante il quale si stabiliva che l’area a ovest della linea fosse appannaggio degli spagnoli, quella a est dei portoghesi. Si stava, in fatto e in diritto, affermando che esisteva una spazialità piena (la respublica christiana) e una vuota, aperta al dominio, alla conquista, all’uso della forza e all’inimicizia. Questa distribuzione era ancora dentro un paradigma antico, che vedeva al centro l’autorità papale. La modernità incipiente incrinò questo schema, stabilendo non l’esistenza di un mondo unitario sotto il dominio papale, ma due universi distinti: da un lato, l’Europa, la terra, il diritto, l’amicizia, la pace; dall’altro i nemici, la conquista legittima, l’oceano senza regole, la guerra.

Le amity lines, le linee di amicizia, dunque, scardinarono quel paradigma, o meglio gli imposero un’accelerazione che avrebbe fatto dell’Europa, almeno sulla carta, il luogo dell’identità, del rispetto dell’autorità politica della nuova struttura politico-amministrativa, lo Stato (superiorem non recognoscens). In sostanza, in Europa occorreva rispettarsi e perseguire la pace, ma ciò era possibile solo a patto che si affermasse che fuori dall’Europa tutto diventava possibile, e che ogni regola di natura morale, etica, giuridica, diventava, al di là delle linee, carta straccia. Fu la stura alla conquista, la legittimazione del colonialismo. In pratica, l’Europa moderna poté costituirsi come noi la conosciamo solo grazie a questa proiezione della conflittualità là fuori, dove tutto diventava possibile perché l’altro non contava, non esisteva, era solo preda.

Pur volendo evitare gli anacronismi che oggi portano a parlare di fascismo, di Auschwitz on the beach’, di pogrom, di ‘pulizia etnica’ in relazione a fatti che francamente con le vicende evocate non hanno davvero niente a che fare, e anzi non fanno che produrre uno slittamento semantico che se da un lato destoricizza quelle vicende e ne depotenzia la gravità, dall’altro non consente di comprendere il presente; si diceva: pur volendo evitare tutto ciò, occorre ricordare come ancora pare sia all’opera un dispositivo (coloniale?) che produce l’identità passando dalla costruzione dell’alterità radicale. In altri termini, l’Europa oggi intende costruirsi di nuovo, ri-costruirsi, attraverso una nuova affermazione di uno jus publicum europaeum fondato sulla separatezza del continente dal resto del mondo. Una separatezza che affonda nell’idea che l’Europa sia il luogo dei diritti e delle relazioni amichevoli, ma solo a patto che la conflittualità tra gli Stati una volta, e oggi anche la questione sociale (e la risposta alla disuguaglianza, alla povertà, alla miseria), possano avere libero sfogo oltre le linee di amicizia, beyond the lines.

L’Europa di oggi, ansiosa di darsi una nuova identità, sembra dunque ripercorrere quel funesto tragitto, tipico di tutte le identità: definirsi attraverso l’annientamento dell’altro, la sua negazione. E colpiscono le parole di chi esalta il risultato conseguito dal governo Gentiloni e dal ministro Minniti, e in fondo da tutta l’Europa: “Niente più morti nel Mediterraneo”. Non conta che quei morti giacciano nelle piste del deserto, in furgoni arroventati sotto il sole, oppure nei campi libici: essi sono al di là delle linee, beyond the lines, e lì tutto è possibile e non ci riguarda, poiché quello è il luogo sul quale si proietta la nostra aggressività e che ci restituisce l’immagine allo specchio di un’Europa ‘ripulita’, l’Europa dei diritti. Un vero specchio di Dorian Gray, si direbbe.