L'attrice, già premio Oscar per Fargo dei Coen, interpreta una nuova, cazzuta e volitiva donna nel film Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, in Concorso
“Il personaggio di Fargo mi rimarrà addosso fino alla tomba”. Guai a chiedere a Frances McDormand se la sua nuova, cazzuta e volitiva donna, interpretata in Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, film in Concorso alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, potrà vincere un Oscar. Il peccato originario è, e rimane, in famiglia. A casa Coen. La mamma arrabbiata e fumantina, che decide di noleggiare tre enormi cartelloni pubblicitari (i “billboards” del titolo) di una strada della città inventata di Ebbing (Missouri) per scriverci sopra che dopo sette mesi lo sceriffo e la polizia locale non hanno ancora trovato l’assassino della figlia, potrebbe non spiccare il volo per un nuovo Oscar.
Premio che qui al Lido tutti vorrebbero assegnare alla McDormand. La colpa risiederebbe proprio in quella Marge Gunderson, altra donna risoluta, incinta e cocciuta, che suo marito Joel, e suo cognato Ethan, le chiesero di interpretare nel 1996 in Fargo. Da lì di acqua sotto i ponti e di interpretazioni degne di nota per la McDormand ne sono passate. Certo è che nel nuovo film di Martin McDonagh (ve lo ricordate quant’era teatralmente folle In Bruges?) la McDormand si trascina dietro senso ed equilibrio dell’intera opera, l’ennesima a produzione statunitense in questa Venezia 74, che sembra non avere altro da proporre che uno humor tendente al grottesco perennemente solleticato e una storiella sociale da “America profonda” che non sembra avere che un’unidimensionale strato di testo.
La risoluta 60enne Mildred ha quel conto in sospeso lì con la sua “comunità” d’appartenenza. Non può elaborare il lutto della morte della figlia adolescente fino a quando il manipolo un po’ razzista, un po’ distratto e un po’ cialtrone di poliziotti locali non avrà concretamente indagato per acciuffare il colpevole. Così la donna acquista i tre cartelloni suddetti e provoca uno scandalo pubblico: tra i concittadini, con il marito separato, con un vice sceriffo particolarmente ottuso e ubriacone (il solito allucinato Sam Rockwell), e tra i compagni di scuola dell’altro figlio adolescente. Solo che la caratteristica di questa signora con capelli corti e codino, al lavoro dietro a un bancone di souvenir, scarponi da montanaro ai piedi, è quella di prendere di petto ogni provocazione. Mildred non la manda a dire a nessuno: allo sceriffo che affronta a un metro dal naso o con il dentista che la tratta malissimo per via dei cartelloni e lei gli trapana un dito evitando una cura frettolosa.
“Per questo personaggio mi sono ispirata a John Wayne”, ha raccontato in conferenza stampa l’attrice. “Ho usato la sua camminata. Come figura iconica resiste alla prova del tempo. In Sentieri selvaggi è di un razzismo estremo, ma alla fine del film proviamo simpatia per lui”. Three Billboards outside Ebbing, Missouri staziona ciondolante, senza un vero e proprio sguardo etico, sull’assunto spiegato dalla svampitina nuova fiamma del marito di Mildred: “La rabbia attira rabbia”. Un gorgo senza fine di piccole vendette tra vicini, una reazione a catena che non risparmia nessuno, in una spirale di sangue grondante che non raggiunge le vette tarantiniane, ma che comunque ne evoca l’afflato estetizzante, fine a se stesso, dei primi film. “È vero il film comincia con la rabbia ma finisce con il perdono e con l’amore. Volevo dare spazio alla speranza”, spiega il regista inglese McDonagh. Lecito dunque chiedersi cosa ci sia oltre questa scontata drammaturgia da serie tv in saldo, oltre questa patina spiazzante di scontato divertimento. Sì perché il tono del film, come per In Bruges, si affida alla buffoneria spaccona di tutti i personaggi. Scelta tesa a sottrarre pathos dove la trama comunque si dirige spedita, cioè nel dolore della madre dovuto all’inazione degli agenti e nella relativa vendetta. Insomma un pasticcetto visivamente modaiolo che lascia abbastanza indifferenti e concede campo libero alla iperpresenza della McDormand. Dimenticando che avere una coscienza, quando si fa cinema, e lo si porta in Concorso ad un festival, male potrebbe pure non fare.