Sono un giornalista catanese. Catanese anche se da Catania sono lontano da oltre un decennio. Lontano perché espulso, cacciato da una città con la quale non si è mai fatta la pace. Incompatibili, lei con me e io con lei. Eppure legati, indissolubilmente legati.

Oggi la guardo con occhio sensibilmente distaccato, senza coinvolgimenti e passioni. Il tempo e la distanza spengono entrambi e lasciano spazio alla lucidità all’analisi fredda. Inutile negare che quel tempo, trascorso nelle sue strade, speso nelle sue notti, mi manca. Mi mancano, come a tutti i migranti, gli odori, i sapori i suoni, che sublimo cucinando ogni tanto i suoi piatti o raccontandola a chi vi si reca e poi torna ringraziandomi per le indicazioni che da me ha avuto. Mi mancano alcune facce, alcuni esseri umani.

Ma cosa mi manca della sua essenza di città? Me lo sono chiesto leggendo le ultime cronache che raccontano della violenza feroce, consumata su un povero disgraziato che indossava una divisa, uno che di certo voleva portare uno stipendio a casa e non fare l’eroe. Un vigile urbano massacrato da una banda di carusazzi a cui non è parsa cosa lecita, per il loro particolare codice, che quell’uomo in divisa facesse il suo dovere e non accettasse la loro soperchieria. Non sappiamo se fossero figli delle banlieue o se arrivassero dai quartieri bene, se fossero figli di stimati professionisti come il criminale che anni fa ammazzò una ragazza riducendo in fin di vita altri ragazzi guidando come un pazzo un fuoristrada inseguito dai carabinieri dei quali non aveva rispettato l’alt. Figlio della buona, buonissima borghesia, intervenne papà e il bastardo se ne uscì con poco. Potrebbero essere l’uno o l’altro, perché i codici di comportamento, la violenza espressa per il gusto di esercitala, di farla uscire dalla playstaion, quella è comune e non conosce classe sociale.

Giovani impazziti, o ebeti o nevrotici – scriveva Pierpaolo Pasolini nel 73 sulla rivista Playboy vagano per le strade di Catania coi capelli irti o svolazzanti, le sagome deformate da calzoni che stanno bene solo agli americani: vagano con aria soddisfatta, provocatoria, come se fossero depositari d’ un nuovo sapere. Sono, in realtà, paghi dell’imitazione perfetta del modello di un’altra cultura. Hanno perso la propria morale, e la loro arcaica ferocia si manifesta senza forma.

Non sappiamo chi fossero i bastardi di via del Rotolo e non può esserci la scusante del quartiere disgraziato, della banlieue. Perché il vigile, forse avrà avuto una vita altrettanto difficile, perché a Catania nessuno va a fare il vigile urbano se ha di meglio da fare. Non vai a fare quel mestiere per vocazione, ci vai per bisogno di avere un lavoro. A guidarli il più vigliacco di tutti: quello fermato dal vigile che, da solo, aveva calato le corna, ma poi era tornato col branco per vendicarsi, forte della vigliaccheria del numero.

Ma il peggio non sono loro.

Sono i silenzi a cui le madri, le brave madri catanesi, educano i figli fin da dentro il fasciatoio a stare sempre prudentemente dalla parte dei carnefici e mai dalla parte delle vittime, mostrando a modello i loro padri, muti, complici di ogni nefandezza. Complici anche in cambio di niente. Istruiti a non esporsi a non denunciare mai nulla, fosse anche una violenza subita, che tanto ci sono altre strade per mettere le cose a posto e l’importante è andare avanti. Silenzi, non solo quelli omertosi davanti al potere della mafia. No, ci sono silenzi addirittura peggiori, sono quelli inutili, quelli che non servono a proteggerti, ma che eserciti per cultura, per atavico retaggio e per altrettanto atavica vocazione al servaggio verso colui che reputi, anche in via ipotetica, più forte. Sono questi silenzi che non renderanno forse mai punibili i cani feroci e vigliacchi del branco che ha massacrato il vigile.

Sono soprattutto questi silenzi a non rendere mai redimibile la mia città, che più non mi appartiene

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