Nella bozza di risoluzione al vaglio dell’Onu tra le sanzioni a Pyongyang anche lo stop al gas naturale, il divieto all’export dei prodotti tessili e l’impiego di lavoratori nordcoreani oltreconfine. La proposta statunitense, sul tavolo l'11 settembre, vieta al leader di viaggiare. Ostacolo Russia
Secondo una copia della risoluzione al vaglio dell’Onu visionata dalla stampa internazionale, la prossima tornata di sanzioni contro Pyongyang potrebbe prevedere, tra le altre cose, il tanto atteso embargo su petrolio e gas naturale, il congelamento dei beni del leader Kim Jong-un – a cui verrebbero inoltre imposte restrizioni sui viaggi all’estero -, oltre a un divieto sull’export di prodotti tessili e l’impego di lavoratori nordcoreani oltreconfine. Se approvata, la risoluzione autorizzerà tutti i membri delle Nazioni Unite a utilizzare navi e aerei militari “per ispezionare in alto mare qualsiasi imbarcazione” segnalata dal Consiglio di Sicurezza. Una misura che gli esperti temono possa creare tensioni analoghe a quelle sperimentate nel 1962 durante la crisi dei missili di Cuba.
La bozza, presentata il 6 settembre da Washington alle Nazioni Unite, arriva a pochi giorni dal sesto test nucleare di Pyongyang, dieci volte più potente di Hiroshima, e mentre gli analisti pronosticano un nuovo test balistico intercontinentale prima del 9 settembre – data della fondazione della Repubblica Popolare Democratica di Corea – con l’isola di Guam come prossimo target. La proposta statunitense – che verrà discussa con ogni probabilità lunedì 11 settembre – ha raggiunto il Palazzo di Vetro a stretto giro dall’ultima conversazione telefonica tra Trump e Xi Jinping: uno scambio “molto franco” in cui il leader cinese ha ribadito il proprio sostegno ad una denuclearizzazione della penisola coreana attraverso mezzi pacifici, mentre Trump ha assicurato di non considerare l’opzione militare come “prima scelta”. “Penso che il presidente cinese sia d’accordo con me al 100%”, ha riferito alla stampa il nuovo inquilino della Casa Bianca riportando l’esito del confronto.
Se fino a poco tempo fa Pechino ha dimostrato una certa riluttanza ad abbracciare l’ipotesi di un taglio netto degli approvvigionamenti energetici al Regno Eremita – che rischia di avere pesanti ripercussioni sulla popolazione più che sul programma nucleare nordcoreano – negli ultimi giorni sulla stampa di stato sono spuntate voci favorevoli a un netto inasprimento delle sanzioni contro il vecchio alleato comunista. La mattina del 7 settembre, segnalando una possibile inversione a U, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha affermato che “considerati i nuovi sviluppi nella penisola coreana, la Cina concorda sul fatto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite debba reagire ulteriormente, adottando le misure necessarie” in aggiunta al precedente divieto sulle importazioni di carbone, ferro, piombo e prodotti ittici nordcoreani approvato a inizio agosto.
Profilando lo scenario di un mancato accordo in sede Onu, il Segretario al Tesoro americano Steve Mnuchin ha rivelato di avere già pronto un ordine esecutivo per l’imposizione di sanzioni contro tutti quei paesi che si ostinano a intrattenere rapporti d’affari con Pyongyang. Chiaro avvertimento a Pechino e Mosca, che foraggiano il regime de Nord rispettivamente con 800mila e 160mila tonnellate di petrolio l’anno. Nella giornata del 6 settembre, discutendo la crisi nordcoreana con il presidente sudcoreano Moon Jae-in in visita nel Far East russo per un summit economico, Putin ha rigettato l’ipotesi dell’embargo definendola “inutile e improduttiva”, oltre che foriera di una crisi umanitaria che priverebbe la popolazione nordcoreana dei servizi di base. Un’analisi su cui concordano gli esperti, piuttosto propensi a ritenere Pyongyang perfettamente in grado di gestire – almeno nel breve periodo- le sue operazioni militari grazie alle riserve petrolifere accumulate e a un taglio del 40% nell’impiego civile di oro nero, sostituibile con altri combustibili.
Insomma, il vero ostacolo ad un intervento concertato del Consiglio di Sicurezza sembra ormai provenire dalla Russia più che dalla Cina, preoccupata per gli sviluppi militari in corso nel suo cortile di casa. I due paesi membri – entrambi con potere di veto – si sono fatti invano promotori di una soluzione diplomatica basata su “una doppia sospensione”: il congelamento del programma nucleare nordcoreano in cambio di un’interruzione delle esercitazioni congiunte tra Washington e Seul. Il fatto è che, tanto per Pechino quanto per Mosca, gli Stati Uniti sono corresponsabili dell’escalation nella regione, specie da quando giorni fa Trump ha promesso a Corea del Sud e Giappone la vendita di “attrezzature militari altamente sofisticate”. Proprio quest’oggi le autorità cinesi hanno formalmente condannato la ripresa, a sud di Seul, dei lavori di installazione del sistema antimissile statunitense (Terminal High Altitude Area Defense), bloccati in attesa di un’indagine sui rischi ambientali e di cui Pechino teme di essere il vero target.