In questi primi giorni di settembre siamo stati tutti colpiti dal luttuoso evento della bambina uccisa a Brescia da una grave forma di malaria cerebrale. In questo post, gradirei chiarire due o tre punti, senza ovviamente approfondire una materia di per sé particolarmente complessa da un punto di vista scientifico e clinico.
La malaria è stata presente nel nostro paese fino ai primi anni cinquanta. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms-Who) dichiarò l’Italia malaria free nel 1970, parecchio in ritardo rispetto alla realtà effettiva. Nel corso di questi ultimi decenni, i casi che si sono verificati sul nostro suolo sono stati causati “tutti” da forme di importazione: turisti o lavoratori connazionali che la contraevano durante il soggiorno all’estero. Insieme a un numero crescente di persone native di zone endemiche, ossia originarie di paesi in cui la malaria è presente, che ha contratto la malattia nel corso di un ritorno occasionale nel paese natio, per la perdita della premunizione, quello stato di relativa assuefazione immunologica alla malaria che i nativi che vivono in zona endemica acquisiscono, venendo fin da piccoli cimentati da ripetute infezioni. Nella grande maggioranza, questi pazienti non avevano praticato la profilassi farmacologica e comportamentale, che avrebbe potuto evitare il rischio di acquisizione della malaria.
Tre considerazioni sul caso di Brescia
Allo scopo di valutare i fattori di rischio, nel mio lavoro apparso sull’European journal of Clinical microbiology and infectious diseases 2007 (volume 26, 3, pp 175–179) ho raccolto un migliaio di casi di malaria giunti alla mia osservazione nel corso dei miei anni ospedalieri. Il rischio di mancata profilassi è infatti prevalente nei viaggiatori che poi si ammalano di malaria.
1. Un primo aspetto è che, al netto di qualsiasi opinione preconcetta o di qualsiasi “precognizione”, il riconoscimento con metodiche di biologia molecolare ci consentirà di identificare con certezza quale genotipo (dal momento che la specie è stata già accertata: trattasi di Plamodium falciparum) di Plasmodio sia implicato nel caso in oggetto. Ciò consentirà di restringere il campo delle ipotesi e permetterà di risalire alle modalità del contagio che ha determinato una sintomatologia clinica così grave.
2. Un secondo aspetto riguarda il tempo trascorso tra il momento dell’inoculazione del parassita malarico da parte di un’Anopheles nel sangue della povera vittima e l’esordio della malattia. La malaria che ha causato la sintomatologia è stata provocata, come dicevamo da Plasmodium falciparum, che ha un periodo di incubazione che va in media da 7 a 14 giorni. Pertanto nel caso in oggetto potremmo essere sincronizzati con il ricovero precedente avvenuto dopo ferragosto. Ripeto però che le ipotesi sono tutte aperte, in attesa di un quadro completo di accertamenti. Non è al momento nota, ad esempio, la provenienza della zanzara infetta: se si trattava di una zanzara autoctona o no (cioè nata in Italia oppure in zona tropicale). Si può infatti ancora speculare ad esempio sulla possibilità che vi sia stato un trasporto dall’Africa, mediante effetti personali, valigie, abiti o altro della zanzara vettore della malaria nell’ambiente di ricovero della piccolo vittima. La cosiddetta “airport malaria“. Ricordo un caso di acquisizione di malaria per tale via pubblicato parecchi anni fa da parte di una équipe dello Irccs Spallanzani (si legga in proposito l’articolo A case of falciparum malaria acquired in Italy. Trop. Geogr. Med. 39: 77-79; 1987).
3. In terzo luogo va affermato con chiarezza che le circostanze nelle quali si presume si sia verificato il contagio, all’interno di un reparto ospedaliero, sono francamente del tutto eccezionali, secondo me assolutamente non prevedibili. Fra l’altro, non è previsto a norma di regolamento ospedaliero alcun genere di isolamento per i malati di malaria. La dimostrazione da parte degli entomologi della presenza eventuale di una zanzara plasmodiofora (cioè albergante il protozoo e capace di trasmetterlo in maniera efficiente) sarà in grado di dirimere questo enigma.
Come può essere arrivata nel nostro paese
Un’importante osservazione la rivolgo a coloro che hanno affermato che la malaria sarebbe stata introdotta nel nostro paese dai migranti. La diffusione della malattia in un determinato territorio corrisponde ad una serie di variabili, fra le quali cito:
a. presenza di vettori, in Italia molto scarsa e di efficienza mediocre;
b. presenza di un cospicuo e concentrato numero di malati sul territorio, e questo è un dato del tutto assente nel nostro paese, i casi vengono riconosciuti e curati almeno finora in reparti specializzati;
c. mancanza di un servizio sanitario capillarmente attivo e in grado di riconoscere e sorvegliare in maniera adeguata gli eventuali casi, e di attuare misure di igiene e profilassi efficaci. In questi decenni, come sappiamo, il Servizio sanitario nazionale ha garantito l’impossibilità per qualsiasi focolaio di malaria di poter svilupparsi e attecchire.
Pertanto, il “dagli all’untore”, cioè “al migrante”, in questo caso è soltanto una perdita di tempo e di energie da dedicare a scopi più utili, oltre a essere un esecrabile atteggiamento.