Datemi un culo di donna e vi mostrerò il mondo. Irrompe quasi al fotofinish, in Concorso alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, il settimo film del francotunisino Abdellatif Kechiche. Mektoub My Love: Canto Uno è il primo capitolo di una possibile trilogia che il vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2013 per La Vita d’Adele, e del Gran Premio della Giuria nel 2007 a Venezia per Cous cous, regala a una competizione veneziana fino ad ora avara di visioni gioiose e vitali. Kechiche mette in scena un coming-of-age concentrato nell’estate del 1994 a Sete, nel Sud della Francia, con al centro Amin (Shaine Boumedine), ragazzo di origine tunisina, che da Parigi, dove ha appena abbandonato la facoltà di Medicina ed è in attesa di ricevere riscontri per una sceneggiatura cinematografica che ha scritto, torna a trovare amici e parenti. C’è il cugino Toni, sciupafemmine che abborda tutte le ragazze più carine della spiaggia e del paese imitando la camminata “alla Aldo Maccione”; c’è l’amica del cuore Ophelie, pastorella formosa e disinibita che flirta con Toni pur avendo un compagno ufficiale in guerra; ci sono due nuove giovani ragazze di Nizza in vacanza che legheranno subito con i due ragazzi protagonisti; ma soprattutto la vicenda raccontata è immersa in un microcosmo tunisino in terra francese, simile a quello di Cous cous, fatto di ristoranti, bar, zii un po’ libidinosi, madri e zie single, fiere e risolute, che ammorbidisce le turbolenze di cuore e di spirito dei ragazzi.
Mektoub My Love: Canto Uno è fin dalla prima inquadratura, dalla prima sequenza, un tourbillon di corpi, baci, amplessi, cibo nutriente e sugoso, che sfida l’occhio spettatoriale ad una versione disinibita, nuda e carnale della crescita e dell’affermarsi della vita, senza però scivolare nel volgare e nel perverso. Macchina da presa in continuo movimento, quasi a mimetizzarsi tra braccia, gambe, visi degli interpreti, naturalezza e immediatezza dello sguardo, Kechiche ha come un bisogno ancestrale di rimanere per tanti minuti a seguire uno scambio concitato di battute tra parecchi personaggi, a inseguire i ragazzi che fanno il bagno o che scherzano sulla battigia, o ancora che ballano scatenati e felici in una discoteca con i successi tecno anni novanta.
“Ho voluto far penetrare lo spettatore nel film, dare un’impressione di leggerezza, far percepire qualcosa di vissuto. Questo film lo definisco un inno alla vita, al corpo, al nutrimento”, ha spiegato il burbero Kechiche in conferenza stampa. Tre ore piene di cinema che non concedono respiro, che giocano sull’accumulo di erotismo e familiarità di seni e natiche femminili, che sfornano personaggi importanti al fine del racconto senza mai dimenticarli per strada: “Il mio non è uno sguardo machista, bensì la rappresentazione di donne forti, potenti e coraggiose e il risultato del senso di bellezza che il corpo femminile scatena in me. E poi state bene attenti: su 2500 inquadrature del film 2450 sono sui visi degli attori non sui dettagli del corpo”, risponde Kechiche ad una giornalista indispettita per la mancanza di altrettanta osservazione dettagliata sui corpi maschili. Vi è infine, in questo percorso verso l’età adulta soprattutto di Amin, timido ma ambito single del gruppo di amici, una originalità esistenziale e professionale che lo distingue, e che narrativamente ci trascinerà nel Canto Due (già pronto), e Tre (ancora produttivamente da preparare). Il ragazzo ama fotografare. E visto che siamo nel 1994 vi sono ancora le pellicole e le camere oscure. Amin cerca il lampo di luce, la scintilla cromatica, una traccia di esistenza che sboccia nel cosmo. Tenero e felice, pur spupazzato da tante belle e mai sboccate fanciulle a cui mai si concede del tutto, ad un bel momento si sdraia tra cacche e paglia nel recinto delle pecore curate dalla voluttuosa Ophelie e durante la notte fotografa il parto di due agnellini. Sequenza che per noi diventa filmata senza troppi stacchi di montaggio, con una pecorella partoriente che si alza da terra e comincia a pulire con la lingua i suoi due cuccioli. Solo per questo delicato, incredibile attimo fuggente che Kechiche ci offre in una sorta di sacrificio al contrario, Mektoub My Love: Canto Uno meriterebbe un premio importante dalla giuria veneziana: “Mektoub significa destino, kharma e il film nel suo insieme solleva il significato del destino a cui l’amore (Love) si associa sempre. Perché spesso il destino è scritto nei rapporti amorosi”.