Il sogno dei Dreamers muore all’alba della presidenza di Donald Trump che abroga con un tratto di penna l’iniziativa del suo predecessore, Barack Obama, per permetteva agli immigrati senza documenti portati bambini negli Stati Uniti dalle loro famiglie di continuare a studiare e lavorare nell’Unione.

Per Trump, nel segno di ‘America first’, l’atto di Obama “è incostituzionale”: come se fossero quei ragazzi formati ed educati nei Community Colleges, le Università pubbliche, ovviamente tutti ‘nativi digitali’, a togliere il lavoro ai nerboruti ex operai del manifatturiero o ai minatori, incapaci di riciclarsi, ma pronti a votare il magnate che prometteva loro di riaprire miniere e fabbriche, aggravando il riscaldamento globale e sfidando le logiche dell’economia.

Il presidente dà in pasto al suo elettorato un provvedimento sbagliato e per di più inutile, ma facile e d’impatto, per fare passare in secondo piano le frustrazioni delle promesse mancate o addirittura tradite, ad esempio l’invio di rinforzi in Afghanistan, contro ogni impegno elettorale.

Ancora una volta, come per i transgender, Trump cancella Obama a modo suo: dà l’annuncio, ma fa le cose a metà. E lascia al Congresso sei mesi di tempo per risolvere un problema di cui si discute senza esito da 16 anni: definire lo statuto legale di 800mila immigrati portati illegalmente negli Usa dai loro genitori: i Dreamers, i sognatori, perché non desiderano altro che restare a vivere nel loro Paese, spesso l’unico che hanno mai conosciuto.

Neppure Obama aveva risolto la questione per via legale: con una decisione presidenziale, aveva lanciato nel 2012 il programma Daca, Deferred action for childhood arrival. E Trump sa bene che una decisione presidenziale ne vale, e ne cancella, un’altra. Jeff Sessions, segretario alla Giustizia, ansioso di riguadagnarsi la fiducia del ‘capo’, appannata nelle pieghe del Russiagate, argomenta perché Obama si sarebbe arrogato un potere che non aveva.

Quando misura l’ostilità della politica – non solo l’opposizione democratica – dell’economia – le grandi imprese, soprattutto quelle dell’innovazione e la Silicon Valley, sono contro la misura che le priva d’un bacino di manodopera qualificata – e della società, Trump si barcamena: adamantino com’è nelle sue contraddizioni, twitta che “se il Congresso non legifera in sei mesi riesamino il blocco”.

Al che, i fans del ‘Make America Great Again’ mugugnano. E il presidente fa una piroetta: nega passi indietro, lui tira dritto, troverà un accordo con il Congresso, con cui ha tutti i fronti aperti, le riforme del fisco e dell’immigrazione, il finanziamento dell’innalzamento del muro lungo il confine con il Messico, la sostituzione dell’Obamacare. “I miei messaggi non sono contraddittori – dice ai giornalisti sull’AirForceOne- Sono convinto che il Congresso troverà una soluzione”, con un “sostegno bipartisan”.

Un’iniziativa di legge bipartisan sui Dreamers c’è: la portano avanti i senatori repubblicano Lindsay Graham e democratico Dick Durbin, che pure partono da giudizi opposti sul Daca. Paul Ryan, lo speaker della Camera, un repubblicano non amico del presidente, lo considera “un chiaro abuso dell’autorità esecutiva“, ma invita il Congresso a fare ora la sua parte.

I vescovi d’America definiscono la decisione di Trump una mossa “straziante” e “riprovevole” e “un passo indietro rispetto ai progressi che dobbiamo fare come Paese”. Le parole dei vescovi echeggiano quelle di Obama, secondo cui abrogare il programma per i Dreamers è “sbagliato”,”autolesionista”, “crudele”. Tra le molte voci critiche spicca quella del senatore repubblicano John McCain che considera “sbagliato” l’approccio all’immigrazione” del presidente: “Sono fermamente convinto che i Dreamers non abbiano nessuna colpa e non debbano essere costretti a tornare in un Paese che non conoscono”.

Il tema conquista le aperture dei giornali, dei siti, dei notiziari, spodestando Harvey e la bomba di Kim, in attesa che Irma invada la scena. I Dreamers sono decisi a dare battaglia e a non farsi cacciare – dicono – “dal nostro Paese”. E 15 Stati dell’Unione, più il Distretto di Colombia, dove c’è la capitale federale Washington, contestano in giustizia la decisione presidenziale.

Bob Ferguson, il ministro della Giustizia dello Stato di Washington, Nord-Ovest dell’Unione, ritiene che l’azione avviata dall’Amministrazione Trump violi i diritti per un giusto processo riconosciuti agli immigrati. Ferguson fu il primo a lanciare la sfida legale al ‘Muslim ban’, cioè il divieto d’ingresso negli Usa per i cittadini di alcuni Paesi musulmani.

Quel caso è approdato alla Corte Suprema. Cui forse s’appelleranno pure i Dreamers, coccolati da Obama e bruscamente risvegliati da Trump. Nella speranza che, se a Washington non c’è più un presidente, resti almeno un giudice all’altezza del ‘sogno americano’.

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