Total ha il 50% di una concessione su Tempa Rossa secondo giacimento della Basilicata, la cui produzione dovrebbe partire a dicembre. Dopo aver investito oltre 1,5 miliardi di euro, Total prevede di estrarre a Tempa Rossa 50mila barili di greggio al giorno (mbg), aumentando così la produzione italiana di greggio del 40%. Per l’Italia è una montagna di petrolio, mentre rispetto alla produzione dei campi petroliferi Opec è poco più di un collinetta (Ghawar in Arabia Saudita produce più o meno 5 mbg, cioè cento volte di più).
Il governo Renzi, il “governo fossile” che ha sbeffeggiato il referendum contro le trivelle, ha sbloccato il sito produttivo di Tempa Rossa così come le opere (oleodotti e cisterne) per collegare il sito alla raffineria di Taranto, definendoli un’infrastruttura strategica per il Paese: “Le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha dichiarato, in modo surreale, a suo tempo: “Il nostro obiettivo non è non estrarre petrolio, ma consumarne meno”.
Quel che interessa qui non è seguire il fiume di denaro più o meno che dai consigli di amministrazione delle società petrolifere fluisce verso mondo politico, se è vero che proprio per un emendamento legato al progetto di Tempa Rossa si dimise il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi.
Quel che interessa è capire come sia possibile che qualcuno in Italia possa ancora affermare che la produzione di petrolio rivesta interesse “strategico” per il Paese, quando in realtà è solo un gradino più strategico che dipingere di rosa tutte le macchine con conducenti di sesso femminile.
Una volta sì, il settore petrolifero era strategico. Quando è stata creata una società pubblica come Eni per trovare idrocarburi in Italia, ma soprattutto nel resto del mondo, il contesto era totalmente diverso. Il commercio mondiale del petrolio nel 1960 era monopolizzato per oltre il 90% da sette compagnie petrolifere e mezzo (la francese, poi diventata Total, valeva appunto “mezzo”) che potevano fare il bello e cattivo tempo. Potevano alzare o abbassare il prezzo del greggio più o meno a piacimento, formare oligopoli nella distribuzione in Europa e altrove, asfissiare i Paesi consumatori. L’Eni ha cercato di rompere questo assedio prima negoziando con l’Unione Sovietica e poi siglando accordi di partecipazione innovativi con Paesi africani e del Medio Oriente. Poi il mondo è cambiato totalmente.
Oggi le grandi compagnie petrolifere private non monopolizzano la produzione e il commercio mondiale del petrolio, che anzi sono in gran parte in mano alle compagnie nazionali dei Paesi produttori. Ma il mondo è cambiato anche perché mentre negli anni 70 si viveva nel timore di un prossimo esaurimento delle risorse petrolifere, oggi tutto il dibattito (mi qui piace ricordare la figura del recentemente scomparso Leonardo Maugeri) verte sul fatto che se ne produce troppo, e che il picco piuttosto che dal lato della produzione verrà dal lato della domanda.
Se si bloccasse il sistema autostradale o quello ferroviario il Paese rischierebbe il collasso. Se si fermasse di botto la produzione di gas e petrolio, o se quella di Tempa Rossa non arrivasse mai “online”, nessun italiano se ne accorgerebbe. Questo perché di greggio ce n’è fin troppo e lo si compra a prezzi convenienti da una miriade di venditori diversi. La produzione italiana non è strategica nemmeno in senso indiretto. Apporta scarsissimi benefici economici allo Stato italiano e alle amministrazioni locali. Noi paghiamo il petrolio prodotto in Italia e i suoi derivati a prezzi mondiali (che sono la metà di quanto fossero nel 2014, mentre i Paesi Opec fanno una fatica del diavolo perché non cadano ulteriormente), mentre le royalties sono molto basse, inferiori per ragioni del tutto incomprensibili a quelle previste nel resto del mondo. I siti produttivi danno lavoro a poche decine di persone.
In compenso, la produzione di idrocarburi in Italia fa danni sia ai territori nei quali queste risorse vengono estratte, sia all’intero pianeta. L’estrazione di petrolio in Basilicata è duramente e giustamente contestata dai cittadini lucani per gli enormi danni ambientali che già sta causando, per esempio al lago Pertusillo, e per le difficoltà che pone al sistema agricolo e all’espansione del turismo. Quella di gas in Adriatico lascerà in eredità centinaia di piattaforme arrugginite che è poco chiare se le compagnie avranno le risorse e l’obbligo di smantellare. Ma la produzione di idrocarburi fa danni all’intero Pianeta perché, mentre dovremmo diminuire del 30% i consumi di petrolio al 2040 per contrastare l’emissione di Co2 ed i suoi effetti devastanti sul clima mondiale, nel 2016 la produzione globale di petrolio è aumentata. Perché aggiungere altri inutili 50mila barili estratti da giorno territorio delicato come quello italiano?
La Total sta minacciando fuoco e fiamme contro l’ostruzionismo della regione Puglia. Più che allarmarsi, lo Stato italiano dovrebbe fare di tutto per scoraggiare ulteriormente la produzione di Tempa Rossa. Anzitutto dovrebbe aumentare le royalties, per lo meno raddoppiandole. Poi si dovrebbero indurire e raffinare i controlli sui danni ambientali provocati dalla produzione e lo stoccaggio di idrocarburi. Total non potrà rinuncerà ai suoi investimenti, ma almeno limitiamo i danni che può fare con un’estrazione troppo rapida e preserviamo la risorsa naturale per tempi migliori.
Invece di considerare strategica la produzione di petrolio, lo Stato italiano farebbe bene a concentrarsi su ciò che veramente è strategico: dagli investimenti in educazione e ricerca per i quali simo agli ultimi posti nell’Unione europea, a quelli per le rinnovabili e per la riduzione dei consumi energetici. Bisogna passare dalla concezione dell‘accaparramento di risorse naturali come strategico, all’idea che strategica è la lotta per diminuire lo sfruttamento di queste risorse.