La pizza è pronta in tavola, ma lui ancora non è arrivato. Ci sono due ore di strada da casa sua al luogo di villeggiatura in cui si trovano i suoi genitori. Noi siamo invitati a cena e abbiamo il via libera dai padroni di casa di azzannare la prima fetta. Deliziosa, appena sfornata. Dopo una ventina di minuti, il rumore della macchina annuncia l’arrivo del figliol prodigo. Entra scorbutico e saluta la nostra presenza come un’invasione non annunciata. Si lava le mani e siede a tavola. La madre esegue il presentat-arm sfoderando il primo pezzo, ma la temperatura non è gradita al nuovo ospite e al pari di un cliente al ristorante sul punto di minacciare una cattiva recensione, rimanda il piatto in cucina con la specifica richiesta di riscaldarlo. Parliamo di una cena consumata a metà luglio nel mezzo dell’estate più calda degli ultimi 137 anni, e il protagonista del siparietto non è un mocciosetto capriccioso, ma un uomo sposato di 40 anni.
Un altro, di pochi anni più giovane del primo, ha sgridato la madre (la stessa che ad ogni lavaggio appaia i suoi calzini cercandoli nel mucchio) per una pastasciutta a suo dire scotta. Un altro, che da anni vive lontano da casa, porta la biancheria sporca a sua mamma ogni volta che torna a trovarla.
Com’è possibile che a quarant’anni un uomo si comporti ancora come un ragazzino viziato? Cosa gli dà il diritto di avanzare le stesse pretese di un figlio piccolo?
Anche mia madre, quando i primi tempi facevo ritorno a casa, mi chiedeva con aria caritatevole se avevo “qualcosa da lavare”, come se pulire le mie mutande o togliere lo sporco ostinato dalle mie magliette fosse una vocazione quando non un piacere. Le sue genuine profferte di aiuto le ho sempre vissute come un’offesa alla mia libertà di svilupparmi come individuo, di evolvermi come adulto e le ho sempre declinate con fermezza. E non mi permetterei mai di sedermi alla sua tavola, sapendola china sui fornelli da ore per rendere il momento in famiglia speciale, e lamentarmi di qualcosa che mi ha cucinato.
Capita però spesso che i figli maschi non esitino a rivendicare privilegi da reginette sull’orlo di una crisi di nervi. La colpa non è da imputare esclusivamente al figlio, ma a un certo tipo di educazione che viaggia su una corsia preferenziale fatta di scuse risibili, giustificazioni imputabili al mero fatto di avere un “maschio” e vere prostrazioni.
Quando dopo due femmine ho avuto un maschio, il gaudio della gente era palpabile, tanto che la mia figlia più grande a un certo punto mi ha chiesto: “Mamma, ma perché la gente è tanto contenta che arrivi un fratellino?”. Quando mio figlio è in odor di capriccio, le altre madri lo guardano con un sorriso compiacente e vaticinano: “Eh, ma sai…è un maschio”. Come se la semplice dotazione di un pisello gli fornisca il blasone di un casato a cui tutto può essere perdonato. Carogna per nascita, insomma.
Quando in famiglia ci sono sia maschi che femmine, i genitori propendono spesso a demandare i compiti di responsabilità domestica alle sorelle; quasi che un maschio sia geneticamente inabile a mettere in ordine, fare il letto, sparecchiare. E’ sgradevole puntare il dito su quelle donne il cui comportamento penalizza alla fine solo loro, ma quanto contano gli insegnamenti di una madre nella formazione di un uomo adulto? Se i capricci fossero trasformati in prese di coscienza, le richieste di attenzione diventassero collegiali e la visione del mondo non autoriferita ma condivisa, le donne moderne avrebbero più possibilità di trovare mariti e padri più presenti?
Crescere con l’idea che tutto sia concesso inevitabilmente crea dei mostri di egoismo privi di empatia perché assorbiti interamente su se stessi. Inadatti ad ascoltare gli inviti a una gestione partecipata della casa e della cura dei bambini o peggio ancora incapaci di accettare serenamente la fine di una relazione.
A tutti spiace dover rinunciare alle proprie comodità, a quella bambagia sulla quale tutti i genitori cercano di trattenerci, ma se non ci arriva la madre dovrebbe essere il figlio a fare il primo passo.