Com’era il nubifragio? “Un nubifragio mai visto!” E la città? “Devastata”. Il disastro era evitabile? “Certamente, se ci fosse stata la prevenzione”. Poi, la litania: “I soldi, se avessimo avuto i soldi, i soldi, i soldi!” Scorrendo le dichiarazioni post-evento, ci si accorge che, dopo ogni alluvione, il copione resta immutato, quasi debba seguire il rigido canone di una commedia di Aristofane. E qualcuno ci assicurerà che ora si cambierà pagina, mentre i più realisti invocheranno, come ultima ratio, l’aiuto della psicologia.

Tre sono le giustificazioni di chi, avendo dovuto prevedere e provvedere, non lo ha fatto. La prima è un classico: “Un evento eccezionale veramente!” E in Italia sappiamo declinare benissimo la differenza tra “eccezionale” e “eccezionale veramente”. La seconda sono i soldi, che mancano sempre e comunque. In un’epoca retta dalla religione del denaro, sono un argomento che fa il suo bravo effetto. La terza è una (relativa) novità: “È tutta colpa dei cambiamenti climatici“. Sono alibi spesso confutabili, come racconto nel mio ultimo libro, Bombe d’acqua appunto, dove dedico un intero capitolo ai fiumi sepolti. Perché se un corso d’acqua viene canalizzato e coperto, non ci si può stupire se prima o poi scoppia.

Per tutto il Novecento e oltre, coprire i rivi a favore della viabilità e dell’edilizia è stata una costante culturale che politici, amministratori e imprenditori hanno coltivato con devozione. Milano ha più di 250 chilometri di rogge e rivi coperti, Genova più di 50; ma da Trieste a Palermo la storia è la stessa. In caso di scoppio della copertura, a Milano ci si bagna le ginocchia, a Genova e Palermo si può anche morire, perché idrografia e geomorfologia non sono le stesse ovunque. E c’è tuttora un vasto consenso sulle coperture, se ci sono ancora politici di rango che definiscono “messa in sicurezza” un tombamento, magari protetto a monte dall’angelo custode di una vasca di espansione, un ricco movimento-terra che va tanto di moda nel nuovo millennio, e magari neanche no.

Non solo piazze e monumenti costruiti sopra i fiumi, come nella Genova fascista, ma anche strade, parcheggi e centri commerciali producono un “consenso” assai maggiore delle azioni di mitigazione del rischio, che hanno un minimo impatto mediatico e sono spesso criticate. Non soltanto in Italia: a New York come a Londra, Parigi, Brussels e Mosca migliaia di chilometri di rivi giacciono coperti, frutto di un lavoro certosino lungo quasi due secoli. Il Minetta Brook corre sotto la Nona Strada di New York dall’inizio dell’Ottocento, così come il River Fleet, sotto l’omonima via londinese. In tutte queste metropoli, la ragione di tanto zelo era soprattutto igienica, poiché l’urbanizzazione li aveva ridotti a scoli di acque reflue, mentre la fame di aree edificabili o infrastrutturabili ha pesato soprattutto e quasi esclusivamente in Italia.

Oggi le cose sono cambiate radicalmente: gli scarichi sono controllati e le fognature nere convogliano i reflui agli impianti di depurazione. Dalle nostre parti, invece, la bramosia di suolo non si è acquietata. Nel resto del mondo, un fiume non lo si copre più da molti anni. Anzi, lo si scopre se coperto, come avvenuto a Pechino, Seul, Washington, Kalamazoo e Seattle. E si stanno progettando iniziative di questa natura a Londra, San Francisco e Baltimora, Los Angeles e Detroit. Quando, 15 anni fa, lo proponemmo a Genova per il torrente Bisagno, con un’opera architettonicamente saliente, fummo irrisi dagli enti locali detti “competenti”, nel senso di legittimati a decidere.

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