di Stefania Mangione*

Nell’estate appena trascorsa, come anche nel 2015 e 2016, si è tornati a discutere di diritto di sciopero, invocando l’urgenza di una regolamentazione idonea a limitarne l’esercizio, specie in settori strategici come i trasporti pubblici.

Lo sciopero, come noto, trova il suo fondamento nell’art. 40 della Costituzione che lo ha elevato al rango di diritto costituzionale, dopo la stagione corporativa che lo aveva visto reprimere come reato (artt. 330, 333 e 502 ss. codice penale Rocco del 1930).

Benché l’art. 40 disponga che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”, l’evoluzione della nozione di sciopero si deve essenzialmente alla dottrina e alla giurisprudenza, specialmente costituzionale, che ha portato a un progressivo superamento della pregressa disciplina penalistica. Ad oggi l’unico ambito in cui è intervenuta una regolamentazione legale è il settore dei servizi pubblici essenziali (l. n. 146/1990, come novellata dalla l. n. 83/2000), finalizzata a garantire il contemperamento di quel diritto con altri diritti fondamentali della persona di rango costituzionale (salute, istruzione, libertà di movimento, ecc.)

È proprio con riferimento al settore dei trasporti che oggi viene proposto un ulteriore restringimento delle maglie legali attraverso una proclamazione dello sciopero vincolata all’esito di un referendum tra i lavoratori, da imporre alle piccole sigle sindacali per evitare che le agitazioni che coinvolgono una parte minoritaria delle maestranze si riverberino sul servizio, sui lavoratori e sugli utenti.

È questo il parere di giuslavoristi come il senatore Pd Pietro Ichino o il Presidente della Commissione di Garanzia Giuseppe Santoro Passarelli, il quale ultimo, in occasione della presentazione della relazione annuale sulle attività della Commissione, ha ritenuto i tempi “maturi” per una nuova regolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici essenziali basata sulla rappresentatività dei sindacati: per Santoro Passarelli sarebbe opportuno collegare il potere di proclamazione dello sciopero al raggiungimento di parametri di rappresentatività, senza con ciò pregiudicare il diritto garantito dall’art. 40.

Tre progetti di legge – uno dello stesso Ichino, uno a firma del presidente della Commissione Lavoro Maurizio Sacconi (Epi), uno da parte di Aldo Di Biagio (Ap) – ora giacenti presso le commissioni Affari Costituzionali e Lavoro del Senato, rappresentano tasselli di una più generale offensiva nei confronti del conflitto collettivo, che sembra muoversi lungo una duplice direzione: da un lato, il progressivo allargamento dell’ambito d’applicazione della legge n. 146/90 (rivista dalla legge 83/2000) sulla regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, cui è già stato sottoposto, da ultimo, anche il settore dei beni culturali, dopo il noto episodio di chiusura improvvisa del Colosseo avvenuto nell’estate del 2015; dall’altro, la messa in discussione della cosiddetta titolarità individuale del diritto di sciopero, secondo la quale lo sciopero è diritto individuale di ciascun lavoratore (di cui non può disporre alcuna organizzazione sindacale) ad astenersi dalla prestazione lavorativa, solo suscettibile di esercizio collettivo.

Questo secondo versante dell’offensiva non è limitato all’ambito dei servizi pubblici essenziali, – nel quale le spinte alla regolamentazione hanno sponda nel raccogliere consensi, anche per il coinvolgimento dei bisogni degli utenti – ma si estende ad ogni ambito di esercizio del diritto di sciopero, a partire ad esempio dalla logistica, ove si sono verificati i conflitti più accesi dell’ultima stagione.

Peraltro, la questione della cosiddetta esigibilità dei contratti e del “controllo” sindacale sul rispetto degli accordi –  già emersa nella nota vicenda Fiat, dall’accordo di Pomigliano in avanti, costituendo una delle fondamentali ragioni di divisione tra la Fiom-Cgil e le altre organizzazioni sindacali – è anche oggetto del Testo Unico sulla rappresentanza del gennaio 2014 ed ancora “materia calda”.

Come spesso accade, facendo leva su esigenze “sensibili”, non manca chi non perde l’occasione per cercare di indebolire il più tradizionale degli strumenti di conflitto e azione sindacale, che se negli ultimi anni ha certamente risentito della lunga crisi economica che ha ipotecato la conservazione del posto di lavoro di tanti e visto scarse occasioni di rivendicazioni di nuovi diritti, con i primi cenni di ripresa potrebbe invece ritrovare respiro. Ed allora, per qualcuno, è forse meglio soffocarlo sul nascere.

* Sono avvocata giuslavorista a Bologna, per i lavoratori. Ho scritto, assieme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale e faccio della parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL News.

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