E’ veramente il debito il problema dell’Italia? Non per Laura D’Andrea Tyson, professore alla Haas School of Business dell’Università della California, Berkeley, con un recente passato da consulente della presidenza Obama per il lavoro e la competitività e, prima ancora, da membro del Board del Presidente americano per la ripresa economica negli anni più bui della crisi. Il nodo del debito sovrano per lei è importante, ma non centrale: “La priorità sono le riforme strutturali, quelle capaci di muovere l’economia”. Tanto da suggerire alla Germania di allentare la pressione sul tema del debito. E all’Europa di dotarsi al più presto di strumenti fiscali comuni, meccanismi di trasferimento dai Paesi sani a quelli in difficoltà. L’alternativa? Dire addio all’unione monetaria.
“Pensiamo quanto a lungo il Giappone ha vissuto nonostante il suo debito: non credo esista un punto di non ritorno al di là del quale non si possa andare – ha spiegato l’economista in un’intervista a ilfattoquotidiano.it – finché i tassi di interesse rimangono bassi, finché i governi godono di credibilità sui mercati e cittadini e istituzioni comprano buona parte del loro stesso debito, penso che la sua riduzione non sia la priorità”. Altrettanto netto è il giudizio sulle ricette anti-crisi messe in campo dall’Unione. Attuare politiche fiscali restrittive era “esattamente la cosa da non fare per l’Europa”. Ma c’è di più. Secondo Tyson “la recessione europea del 2010 è stata creata dalla politica: mentre gli Stati Uniti si tiravano fuori dalla recessione, l’Europa ci si è infilata a causa della politica fiscale. Ritengo che siate stati guidati male. L’economia aveva bisogno di stimoli che non sono arrivati”. Ecco perché il Vecchio Continente sta impiegando molto più tempo dell’America a ripartire.
Ma non si tratta solo di strategie. I problemi più difficili dell’Europa sono strutturali, e da loro dipende il futuro dell’Ue come unione monetaria. I bachi che hanno lasciato la Zona Euro indifesa davanti all’onda d’urto della grande crisi iniziata nel 2007 sono in buona parte ancora lì. E se ieri l’assenza di politiche fiscali unitarie e la presenza di un’autorità monetaria priva dei pieni poteri di una banca centrale ci impedivano di reagire prontamente, oggi ancora sono “tanti i cantieri aperti, come la regolazione bancaria comune o l’assicurazione comunitaria sui depositi”. Ma per lasciarsi davvero la crisi alle spalle, secondo l’economista statunitense l’Europa deve attivare dei meccanismi di trasferimento. “Proprio come accadde per almeno un decennio tra Germania Ovest e Germania Est – spiega – le regioni più sane e forti dell’Ue dovrebbero trasferire risorse a quelle più in difficoltà”.
Quanto sia urgente la questione è presto detto: “L’unica alternativa che affronti i problemi dei paesi europei ancora in grave sofferenza è avere differenti sistemi di cambio”. Si tratta della cosiddetta Europa a due velocità. O, in altre parole, della fine della moneta unica. Un’altra strada, quella dell’uscita di alcuni Paesi dall’Euro, della quale si è discusso soprattutto per il caso greco, ma che non è stata tentata “perché non ci sono regole. Era troppo complicato, tutto qui”. Tutt’altro il discorso del Regno Unito, visto che le regole per l’uscita dall’Ue invece esistono. I tempi, in ogni caso, cambiano e il futuro dell’Unione dipende dalla capacità di armonizzare le economie dei suoi membri. La ritrovata intesa tra la Francia di Emmanuel Macron e la Germania di Angela Merkel può giocare un ruolo chiave, l’economista ne è convinta: “So che Macron e Merkel si stanno confrontando per verificare come fare di più sui temi della politica fiscale comune e della stabilizzazione, questo sarebbe molto utile per affrontare una nuova crisi, di qualunque tipo essa sia”, aggiunge. E rilancia: “Anche sul fronte dei meccanismi di trasferimento, uno potrebbe essere proprio il Fondo di stabilizzazione (che i più preoccupati già ribattezzano Fondo Monetario Europeo, ndr) di cui stanno discutono i due leader”.
Intanto per gli Stati Uniti la sfida imminente è quella della riforma fiscale, un’incompiuta “anche per la presidenza Obama”, ammette con rammarico, mentre per l’Europa il tema resta ancora sullo sfondo. Quanto alla dimensione globale, oltre alle imponderabili incognite rappresentate dalla minaccia nucleare di Paesi come la Corea del Nord, per Tyson i rischi più insidiosi rimangono quelli sociali. Che nascono “dall’erosione del potere d’acquisto della classe media con la polarizzazione dei salari”. Un problema che negli Usa si è tradotto “nell’insoddisfazione di tante persone che ritengono che per loro il rilancio dell’economia non abbia funzionato”. E aggiunge: “Ecco perché si sono cercate soluzioni isolazioniste, protezioniste, con la tendenza ad accusare gli altri per ciò che accade e a rinchiudersi nei propri confini”. Da qui la vittoria di Trump, ma anche la Brexit: “E’ il rischio più grande per il mondo, un problema cronico la cui soluzione non potrà vedersi nel breve termine”.
Tornando a Roma, l’ex consulente di Barack Obama non smette di ripeterlo, “servono riforme”. Secondo Tyson, la Germania è un esempio concreto di come si possa rimettere in moto l’economia: “Sono molto impressionata dal fatto che in seguito alla riforma tedesca, il mercato del lavoro in Germania funzioni molto bene e il Paese sia in testa alla classifiche Ocse. Ogni indicatore di mercato dell’Organizzazione dimostra che il mercato del lavoro tedesco sta performando al meglio: per quantità di posti di lavoro, livello di disoccupazione, salari. Eccetto quello di genere, tutti gli indicatori sono positivi”. Il che testimonia “il potere delle riforme strutturali sul mercato del lavoro e l’utilità per tutti delle collaborazioni che industria e governo hanno saputo mettere in atto. Io mi concentrerei su quello”, piuttosto che sul debito.