Noi, che viviamo in preda a una bulimia collettiva. Loro, che lavorano in condizioni insalubri, sfruttati e maltrattati.
Noi che agghindiamo i nostri bimbi con abiti sempre nuovi, che li obblighiamo a incessanti tour de force nei centri commerciali per comprare scarpine e vestiti alla moda per l’inizio della scuola. E allora, dico io, ben vengano a scuola i grembiuli tutti uguali, e magari anche divise fino alle superiori!
Tra ragazzi, la moda è tutto: mille volte più importante dei pensieri. Effetto vintage, effetto sabbia, risvoltini, strappi nei punti giusti. Ce n’è per tutti i gusti, basta avere il portafoglio pieno in mano. Comprare, indossare, buttare, ricomprare. Secondo una ricerca di Greenpeace Germania “una persona acquista il 60% in più di prodotti d’abbigliamento ogni anno e la loro durata media si è dimezzata rispetto a 15 anni fa, producendo montagne di rifiuti tessili. La produzione di vestiti è raddoppiata dal 2000 al 2014, con le vendite che sono passate da mille miliardi di dollari nel 2002 a 1.800 miliardi nel 2015″. Secondo Textile exchange il 5% delle discariche mondiali è occupato dai rifiuti tessili, e il 20% dei tessuti prodotti nel mondo viene buttato.
Vestirsi non è più un bisogno fondamentale, ma un capriccio da soddisfare. E i nostri capricci sono la loro condanna. Il 24 aprile 2013 in Bangladesh, un edificio è crollato, uccidendo 1.134 persone e ferendone migliaia. L’edificio ospitava cinque fabbriche di abbigliamento che producevano per i marchi europei e nordamericani. Ancora oggi, la campagna Abiti Puliti denuncia la repressione dei diritti dei lavoratori e il segreto ingiustificato che avvolge le filiere produttive. Questo livello di segretezza ha anche ostacolato la campagna di risarcimento. Nel 2012 hanno fatto scandalo le bambine operaie, scoperte nello stato di Tamil Nadu, che lavoravano senza contratto, chiuse in fabbrica, con settimane di più di 72 ore e un salario di 0,88 euri al giorno. Condizioni che sfiorano la schiavitù, imposte dalle imprese tessili americane ed europee che gestiscono sul territorio la produzione di abbigliamento.
Sfruttamento che si aggiunge a devastazione ambientale: secondo il Wwf, il 2,4 % dei campi di tutto il mondo è attualmente coltivato a cotone, e questa coltivazione incide sull’acquisto globale di insetticidi per il 24% e di pesticidi per l’11%. Anche lo spreco d’acqua è immane, quasi diecimila litri per un solo paio di jeans!
Il trattamento sandblasting che si usa per avere l’effetto vintage dei jeans, è un trattamento pericoloso per la salute dei lavoratori che, senza le dovute precauzioni, possono inalare silice. In Turchia è stato bandito dal 2009, ma la produzione è stata dislocata in territori più permissivi (Cina, India, Bangladesh, Pakistan, Nord Africa).
Che fare dunque? Le imprese non faranno mai un passo avanti, se non saranno obbligate dalle leggi e dai consumatori. Occorre penalizzare con multe o con un sistema di tassazione le imprese che non forniscono adeguate certificazioni ambientali e sociali sulle loro filiere produttive, occorre che lo Stato ponga limiti severi e barriere precise all’importazione di questi “vestiti sporchi”.
Noi consumatori, d’altra parte, dobbiamo agire sul fronte della sobrietà e del consumo critico con tre mosse fondamentali:
1. riusare i vestiti il più a lungo possibile, senza buttarli, rattoppando, imparando ad aggiustarli o ricorrendo ai sarti (anche in questo modo rifiorirebbero vecchi mestieri);
2. scambiarsi i vestiti tra amici e parenti, organizzare fiere del baratto, andare nei mercatini dell’usato. E’ anche più salutare: più a lungo i vestiti sono stati portati, usati, lavati, più metalli pesanti e sostanze chimiche hanno perso;
3. se dobbiamo comprare vestiti nuovi, compriamoli da imprese locali, magari a gestione familiare, che garantiscono l’uso di tessuto biologico (cotone oppure fibre di riciclo, ma ancora meglio tessuti misti di canapa o lino), tinture vegetali naturali, e condizioni di lavoro dignitose. Costano un po’ di più, ma durano anche molto più a lungo. (Aam Terranuova, n.330, p.31)
Anche il fai da te è da riscoprire! Una mia cara amica ha recuperato un vecchio telaio e sta imparando a tessere, recuperando il sapere di sua nonna che altrimenti sarebbe scomparso per sempre. Ai miei figli (maschietti) insegno come si lavora all’uncinetto, ai ferri, con ago e filo. Saperi e arti che si dovrebbe insegnare a tutti i bambini a scuola, a maschi e femmine, perché educano alla manualità, alla cura, e permettono di approfondire nozioni di tecnologia, storia, ecologia.
Ma, purtroppo, anche la scuola si sta piegando alla moda dell’usa e getta. Se si fanno lavoretti, si fanno con plastica e colla e buttando tutto nell’indifferenziato dopo poco. Ma questa è ancora un’altra storia.