Mentre il segretario generale delle Nazioni unite parla di "pulizia etnica" e il Consiglio di sicurezza condanna "le violenze eccessive" contro la minoranza musulmana, la leader del Myanmar non sarà al vertice in programma la prossima settimana. Una petizione online chiede di toglierle il Nobel e l'ex ministro degli Esteri francesi la accusa di essere connivente con le persecuzioni
È passato solo un anno da quando il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi faceva il suo debutto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite da leader del Myanmar. Allora prometteva di fare tutto il possibile per combattere l’odio razziale nello stato del Rakhine, dove vivono i rohingya. A 365 giorni di distanza la minoranza musulmana è costretta alla fuga verso il Bangladesh e l’Onu parla di 313mila persone scappate perché sotto attacco dell’esercito birmano. E Suu Kyi ha deciso di non presentarsi al vertice in programma al Palazzo di Vetro per la prossima settimana. Una scelta, ufficialmente dovuta alla necessità di “gestire l’assistenza umanitaria e le preoccupazioni relative alla sicurezza”, che aumenta l’indignazione per il perpetrato silenzio del Nobel per la pace.
Una lettera aperta firmata da altri 12 Premi Nobel invita la leader birmana a “attuare tutti le misure possibili per mettere fine a questi crimini contro l’umanità”. E a inizio mese una petizione online, sottoscritta da oltre 386mila persone, ha chiesto la revoca del Nobel. Una possibilità esclusa da Olav Njolstad, capo dell’istituto norvegese che nel 1991 le assegnò l’onorificenza per “la sua lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani”. È di mercoledì invece la denuncia dell’ex ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, che intervistato da radio Europe 1 ha detto: “Suu Kyi perseguita i musulmani”.
L’esortazione a uscire dal silenzio arriva anche dal ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson: “Io credo che ora sia vitale che lei usi il suo capitale morale e la sua autorevolezza per denunciare la sofferenza della popolazione di Rakhine” ha detto nella sua conferenza stampa congiunta con Rex Tillerson. Il segretario di Stato americano ha riconosciuto che Suu Kyi si trova in una “situazione difficile e complessa”.
L’attesa per le parola del Nobel per la pace potrebbe terminare, secondo il portavoce del governo, Zaw Htay, il prossimo 19 settembre, quando per la prima volta dall’inizio dell’emergenza, la consigliera di Stato e ministro degli Esteri rilascerà in diretta televisiva “un discorso sulla pace e la riconciliazione nazionale”. Intanto però il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, parla senza mezzi termini di “pulizia etnica”: “Un terzo della popolazione rohingya si trova a dover fuggire dal paese, c’è forse una parola migliore per descrivere questa situazione?”
Le Nazioni Unite hanno infatti “espresso preoccupazione per le violenze eccessive messe in atto durante le operazioni di sicurezza nello stato del Rakhine e ne chiedono l’immediata interruzione, oltre ad auspicare una riduzione delle tensioni, il ritorno all’ordine, la protezione dei civili…e la soluzione del problema dei rifugiati” rohingya, minoranza musulmana molto simile a quella bengalese e omogenea per lingua, tradizioni e religione, a cui il governo di Naypyidaw rifiuta ostinatamente la cittadinanza birmana.
Il primo comunicato congiunto dell’Onu – Nella giornata di mercoledì, su richiesta di Svezia e Gran Bretagna, i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu si sono riuniti a porte chiuse per discutere la situazione in cui verte lo stato della Birmania occidentale dai disordini dello scorso ottobre. E’ la seconda volta dall’inizio della crisi che il dossier rohingya finisce all’attenzione dell’organo preposto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ma, come fatto notare dall’ambasciatore britannico alle Nazioni Unite, Matthew Rycroft, è la prima volta in ben nove anni che il Consiglio rilascia un comunicato congiunto sulla situazione in Birmania. Il che fa presupporre l’implicito endorsement di Cina e Russia, i due paesi “amici” – con potere di veto – a cui negli scorsi giorni il governo birmano si era appellato nella speranza di bloccare l’approvazione di una risoluzione internazionale. Cercando di contenere lo strappo, Pechino – che in casa propria è alle prese con dissidi etnici simili – ha chiarito di “approvare fermamente gli sforzi del governo”. Una spiegazione che difficilmente basterà a tranquillizzare Naypyidaw, bersaglio di critiche tanto da parte dell’Occidente quanto da parte dei vicini asiatici a maggioranza musulmana.
L’origine delle controversie etniche in Myanmar – Governato per circa 50 anni da una giunta militare, nel 2011 il Paese dei Pavoni ha cominciato la sua lenta marcia verso la democrazia sotto il governo civile dell’ex generale Thein Sein. Nel novembre 2015, la Lega nazionale per la democrazia guidata dalla premio Nobel per la pace Suu Kyi ha vinto le prime elezioni democratiche, dando nuova speranza a un paese per anni recluso in uno stato di semi-isolamento e aggressivamente corteggiato dalla Cina. A un nuovo impulso in politica estera, tuttavia, non ha corrisposto un uguale determinazione nella risoluzione delle controversie etniche che lacerano il paese dalla proclamazione dell’indipendenza dal dominio inglese. Allo stesso tempo, i militari – non più formalmente al potere – di fatto continuano a controllare la vita del paese, con il 25% dei seggi del Parlamento e il presidio dei ministeri chiave dell’Agricoltura, dell’Energia, degli Interni e della Difesa.
La situazione dei rohingya – Da anni, 1,1 milioni di rohingya vivono in un limbo, discriminati dalla maggioranza buddhista della popolazione e disconosciuti dal governo di Naypiydaw, che li considera immigrati illegali provenienti dal Bangladesh. Nel 2012, le tensioni latenti tra buddhisti e musulmani sono deflagrate in una rivolta che è costata la vita a circa 200 persone, costringendo le autorità a proclamare lo stato d’emergenza nello stato del Rakhine. Salvo alcuni episodi isolati, la situazione sembrava tornare alla normalità fino a quando lo scorso ottobre alcune stazioni di polizia lungo il confine con il Bangladesh sono state oggetto di una serie di attacchi armati da parte dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), sigla creata da Ata Ullah, un rohingya di origini pakistane, con contatti in Arabia Saudita, che si erge a protettore della minoranza islamica.
La “campagna di bonifica” dell’esercito – Da allora, secondo diverse testimonianze raccolte dalle Nazioni Unite e dalla stampa internazionale, l’esercito – spalleggiato da cittadini di religione buddhista – ha avviato una “campagna di bonifica” per sradicare i “terroristi” nello stato del Rakhine, sfociata in violenze e stupri contro i civili musulmani. Un’escalation in cui – secondo l’Onu – sono morte un centinaio di persone (per la maggior parte rohingya) e in cui l’intervento delle organizzazioni umanitarie è stato ostacolato dalle autorità che ne hanno condannato la presunta complicità con i terroristi. Stando alle stime governative, 176 dei 471 villaggi rohingya sono ormai disabitati o ridotti in macerie dai ribelli (dai militari birmani secondo gli intervistati). Oltre 300mila persone hanno abbandonato le proprie case per trovare rifugio nei campi profughi oltre il confine con il Bangladesh: una media di 20mila al giorno. E a poco serviranno i 77 milioni di dollari richiesti la scorsa settimana dalle Nazioni Unite per far fronte alla crisi.