È uscito in questi giorni (e aggiungerei “finalmente!”), il nuovo libro del torinese Enrico Remmert, La guerra dei Murazzi (Marsilio Editore), coraggiosa raccolta di racconti lunghi (un tempo probabilmente venivano chiamate novelle) che credo farà parlare di sé grazie all’originalità, la maestria nell’uso delle parole, la capacità di riuscire a scrivere plot avvincenti e calibrati alla perfezione.
Ho avuto modo di leggere il testo in anteprima, durante un’estate che, narrativamente parlando, mi ha deluso terribilmente sul fronte italiano. Mediamente scarsi, gli scrittori che ho letto, imbaldanziti da premi spesso non meritati (anche se c’è da dire che la concorrenza era penosa), meritano che i lettori si dimentichino presto di loro e che prestino la propria attenzione su chi, nel panorama nostrano, è capace di donargli storie vere, belle, autentiche. Enrico Remmert ha questa capacità.
È un autore che racconta, in modo straordinario, storie apparentemente semplici, storie di immigrazione, identità, vagabondaggi, culture. Storie che l’ignoranza mediatica tenta di oscurare con i lezzi di fumo nero che escono dal suo calderone di pochezza intellettuale. Così veniamo a sapere dei Murazzi, e anche i lettori che non ci sono mai stati avranno una visione nitida, quasi cinematografica, di uno spaccato reale di una Torino autentica e genuina. Attraverso la descrizione del personaggio femminile (trovata difficile, da applauso, quando chi sta dietro le quinte è un uomo) abbiamo la possibilità di conoscere la storia di Florian, arrivato in Italia nel 1991, direttamente dalla periferia di Tirana, che attraverso i suoi occhi si materializza come una città molto bella, e le incomprensioni con le altre comunità che popolano la città.
C’è il racconto sulla rivolta dei Balseros, a Cuba, nell’estate del 1994, coincidente con il terzo grande esodo anti-castrista verso Miami, descritta con la maestria del grande reporter, una testimonianza di autentico new-journalism alla Hunter S.Thompson (senza il supporto lisergico), dove l’intreccio narrativo non è mai relegato in secondo piano e le piccole cose del quotidiano prendono forza centrale per raccontare una vicenda sociale dalla grande drammaticità.
Poi ci sono un parrucchiere giapponese, un gruppo di hooligan inglesi, due serbi allevatori di cani e molti altri personaggi, in storie dove anche chi appare per un semplice cameo assume importanza fondamentale: niente è lasciato al caso. Sintesi ed efficacia narrativa trasportano il lettore verso le scelte, inevitabili ma non per questo, compiute, degli attori e delle attrici che si muovono in questi racconti. Un po’ come fatto da Adam Johnson ne La fortuna ti sorride (Marsilio Editore) e da Ben Fountain ne Fugaci incontri con Che Guevara (Spartaco Edizioni), l’autore riesce a costruire un tessuto di racconti che stanno perfettamente insieme perché contengono tutti la stessa visione caleidoscopica del mondo. Dal mio punto di vista quelle narrate sono sì esistenze minime, ma non trascurabili (come invece viene detto nella scheda del libro), perché non esistono persone inutili, non esistono storie meno interessanti di altre. La capacità di dare forza alla narrativa è da come viene raccontata, e Remmert ha scritto uno dei libri più forti, coraggiosi e autentici del panorama italiano. Ce n’era bisogno. Ce n’era un fottuto bisogno.