15 settembre 2017: è stato l’ inizio di un nuovo anno scolastico, il primo che affronterò da docente di ruolo. Dopo ben due concorsi (abilitazione e cattedra), entrambi strutturati su tre prove e al termine dei quali a uscirne indenne fu un esiguo 2% dei partecipanti, eccomi finalmente di ruolo nella scuola pubblica, pronto e felice di svolgere il mestiere tanto desiderato, quello dell’insegnante di musica. Insegnamento, quello musicale, a scanso di equivoci più difficile di diversi altri, perché sapete, insegnare in Italia questa materia trattasi di una vera e propria missione, un obiettivo quasi impossibile per via di circostanze e condizioni alla musica del tutto avverse. Quali? Totale assenza di continuità didattica e di adeguate strutture atte alla fruizione e alla diffusione musicale; allarmante scarsezza di fondi destinati alle attività musicali; immobilismo culturale ed estremo conservatorismo da parte dei cosiddetti addetti ai lavori; totale incapacità governativa e amministrativa da parte di persone molto poco indicate per prendere decisioni.
I punti appena elencati sono solo alcuni degli aspetti nostro malgrado legati alla produzione di sapere e conoscenza musicale in Italia: la musica, senza tema di smentita, non riceve nel nostro paese un’adeguata valorizzazione, al punto tale da non poter neanche lontanamente essere affiancata, in un’ipotetica scala percettiva del valore culturale, alle sorelle arti visive e alla letteratura. La musica, relegata per lo più nella sfera dell’intrattenimento, in Italia non fa cultura, e la scuola, di questa situazione, ne è specchio fedele. Tre soli anni di insegnamento musicale, quelli delle scuole medie, nel corso dei quali le maggiori pressioni i docenti di musica le ricevono affinché non si saltino (non sia mai!) gli immancabili concertini di Natale e di fine anno, priorità assoluta per far sì che le famiglie non vengano scontentate.
Tre soli anni a confronto dei circa 12/13 di paesi come la Germania, nei quali alla musica viene affidata buona parte della formazione umana delle future generazioni, degli uomini e delle donne di domani. Già, perché una buona, adeguata trasmissione del sapere musicale non può che pretendere adeguati tempi di gestazione, così come i vecchi conservatori esigevano per i propri alunni prima che a distruggerli giungessero anche per loro le esaltanti riforme governative. Tre soli anni dunque, nel corso dei quali i docenti di musica dovrebbero riuscire a trasferire ai propri alunni, gli adulti di domani, tutto lo scibile di una materia oceanicamente vasta nonché, specie se considerata relativamente al territorio italiano, profondamente caratterizzante il nostro patrimonio storico e culturale:
“Chiunque – recitava una petizione, puntualmente rimasta inevasa, indirizzata prima all’ex ministro Stefania Giannini e poi all’attuale ministro dell’istruzione Valeria Fedeli- in Italia e nel mondo intero ha sentito parlare di giganti quali Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Antonio Vivaldi, Gioachino Rossini e Nicolò Paganini, per non proseguire oltre con la lunghissima lista di geni musicali nostrani. Chiunque ha altrettanto potuto sentir dire circa l’Opera lirica italiana, la Sinfonia, il Concerto, il Madrigale e le tante altre forme o generi musicali nati e cresciuti, prima di approdare in ogni altro paese d’Europa e del mondo intero, sulla nostra penisola; chiunque sa bene come ancora oggi qualsiasi nuova composizione, che venga scritta a Tokio, New York, Londra o Berlino, adotti la nomenclatura italiana: allegro, moderato, andante, largo, staccato, legato, pizzicato, crescendo e diminuendo sono solo alcune delle tantissime indicazioni che, tuttora, vengono scritte, in qualsiasi angolo del nostro pianeta, in lingua italiana, forti dell’incredibile tradizione musicale che il nostro paese, senza possibili paragoni al mondo, può certamente sfoggiare. Chiunque, infine e per non proseguire oltre nonostante la lista dei primati musicali italiani sia veramente sconfinata, conosce strumenti quali il violino, la viola, il violoncello, il contrabbasso, il pianoforte e tanti altri che, grazie ad antiche tradizioni di liuteria italiana, sono nati sul suolo peninsulare e da questo sono partiti alla conquista dei palchi di tutto il pianeta”.
Della totale mancanza di sensibilità e relativa lucidità verso la valorizzazione dell’immenso e al tempo stesso misconosciuto patrimonio musicale italiano ne scrive uno dei più noti storici musicali nostrani, Elvidio Surian, già autore del celebre “Manuale di storia della musica in quattro tomi: “Vale sottolineare che oggi come oggi per ‘patrimonio culturale’ – ‘beni culturali’ – s’intende comprendere pressoché esclusivamente le arti figurative (reperti archeologici, e più in generale i prodotti delle arti figurative). Eppure, sappiamo che la musica ha svolto un ruolo di non secondaria importanza nel nostro Paese e nell’Europa intera sull’organizzazione della società, sulle abitudini e sulla mentalità delle persone (intellettuali e non) di ieri come di oggi. E che pertanto bisognerebbe capire un po’ meglio invece che ignorare la musica, in quanto prodotto culturale e quale valore educativo e religioso che ha contraddistinto la nostra storia”. Cos’altro aggiungere? Speriamo solo di non aver disturbato, con la presente, il profondissimo sonno di chi, al momento, è impegnato a sdoganare l’utilità dello smartphone quale strumento didattico.