Circa 12 miliardi investiti ogni anno, contro gli oltre 60 della Germania. Che per la ricerca e sviluppo, considerando anche quella di base, spende in tutto il 2,8% del suo prodotto interno lordo, mentre l’Italia si ferma all’1,3 per cento. E un sistema a macchia di leopardo, in cui manca una rete organizzata come la Fraunhofer-Gesellschaft i cui 24mila ingegneri e scienziati sono a disposizione delle aziende locali per sviluppare (a pagamento) nuovi prodotti o innovare i loro processi. A zavorrare la competitività delle nostre piccole e medie imprese rispetto ai competitor tedeschi c’è anche una filiera dell’innovazione molto meno ricca e meno organizzata. Il risultato è che la Germania, il cui pil è meno del doppio di quello italiano, ha chiesto lo scorso anno oltre 25mila brevetti europei contro i 4.100 dell’Italia. Per recuperare terreno il governo Gentiloni punta sulla fase due del piano Industria 4.0: creazione di poli per il trasferimento tecnologico gestiti dalle università. Ma i fondi sul piatto sono solo lo 0,6% di quelli stanziati per gli incentivi agli investimenti in tecnologie produttive avanzate.
Lo Stato mette il 45% delle risorse complessive – I Paesi Ue investono in media per la ricerca e sviluppo, di base e applicata, il 2% del pil (INFOGRAFICA). In Italia la spesa totale negli ultimi vent’anni è raddoppiata, ma si è sempre fermata sotto l’1,4% del prodotto interno lordo. Nel 2015, ultimo dato definitivo disponibile, la cifra è stata di 21,8 miliardi. Di cui una dozzina per la ricerca applicata. La differenza principale rispetto agli altri big sta però nella ripartizione tra spesa pubblica e privata: in Francia e Germania i due terzi delle risorse complessive arrivano dalle aziende. Sugli 87,1 miliardi investiti in R&S dal sistema tedesco nel 2015, per esempio, il 68% lo ha messo l’industria e solo il 32% Stato e università. Del resto tra i primi venti investitori europei in ricerca compaiono nove nomi tedeschi (Volkswagen, Daimler, Bosch, Bmw, Siemens, Bayer, Boehringer, Sap e Continental). Mentre per l’Italia, dove il 95% delle imprese ricade nella categoria “micro“, c’è solo Fiat Chrysler che ha ormai sede legale in Olanda. Così sui 21,8 miliardi destinati dal nostro Paese alla ricerca e sviluppo nel 2015 solo il 55% è arrivato dal settore privato.
Ma l’università non ha incentivi a fare ricerca applicata… – “Pur con mezzi non paragonabili a quelli degli altri Paesi, l’Italia ha comunque una buona produzione scientifica”, commenta Emilio Paolucci, vicerettore per il trasferimento tecnologico del Politecnico di Torino. “Come il resto d’Europa, con la Germania che fa parziale eccezione, siamo però meno bravi degli Usa a trasformare i risultati in applicazioni con un impatto economico e sociale”. Non solo per colpa delle università, spiega Andrea Piccaluga, professore di Management dell’innovazione alla Scuola Superiore Sant’Anna e presidente di Netval, la rete degli uffici di trasferimento tecnologico delle università italiane, di cui fanno parte anche Cnr ed Enea: “Gli atenei fanno il loro lavoro”. Che non è, nello specifico, quello di fare ricerca applicata. Tanto è vero che “i docenti vengono valutati solo in base a pubblicazioni scientifiche e insegnamento: per far carriera non conta nulla, invece, la capacità di trasferire nuove tecnologie alle aziende”.
…e alle piccole imprese mancano le competenze per rapportarsi con gli atenei – Che, a loro volta, “spesso non hanno le competenze minime necessarie per interfacciarsi con il mondo della ricerca. Se in organico non c’è nemmeno un ingegnere o un dottore di ricerca è difficile anche capire di che cosa si ha bisogno”. Morale: se la cinghia di trasmissione tra il sistema della ricerca e quello dell’industria non funziona, le colpe stanno da entrambe le parti. Per questo, secondo il docente della Sant’Anna, gli interventi necessari sono due. “Bisogna incentivare i docenti a impegnarsi nel trasferimento tecnologico, introducendo anche questo parametro tra quelli considerati per le valutazioni. E occorre che le piccole imprese investano per assumere almeno un dottore di ricerca.
Il piano del governo: “competence center” per promuovere innovazione. Con pochi soldi – Nel 2016 il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda ha lanciato il piano Industria 4.0, che puntava ad agganciare la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale” basata su tecnologie produttive avanzate come le stampanti 3D e i robot collaborativi in grado di aumentare la produttività. La prima mossa è stata offrire incentivi (super e iper ammortamenti) alle imprese che acquistano questi macchinari per far salire subito la spesa privata e la produzione di beni strumentali, con immediato effetto sul pil. Gentiloni ha raccolto il testimone e sta portando avanti la fase due, che sulla carta guarda al lungo periodo: prevede la creazione di cinque o sei “competence center”, centri di eccellenza gestiti dalle maggiori università in cui le aziende potranno sperimentare e adottare le nuove tecnologie 4.0. I Politecnici di Milano, Torino e Bari, l’università di Bologna, la Sant’Anna di Pisa insieme alla Normale, la Federico II di Napoli con gli altri atenei campani e la rete delle università venete attendono il bando del ministero dello Sviluppo. Ma per ora le risorse a disposizione sono poche: 20 milioni l’anno dal 2017 al 2019, 60 totali. Contro i circa 8,7 miliardi complessivi previsti come copertura per i maxi ammortamenti di qui al 2027.
“Le risorse indubbiamente sono poche”, ammette Paolucci. “Ma è un primo tentativo di creare organizzazioni intermedie che mettano in contatto gli oltre 4 milioni di imprese italiane con gli atenei, che sono un centinaio. Servirebbero poi finanziamenti per altre iniziative a livello di territorio. Noi per esempio, con il sostegno di Compagnia di San Paolo, facciamo un bando per i ricercatori che vogliono realizzare il prototipo di un brevetto per renderlo applicabile in azienda. E con Netval e gli altri atenei stiamo creando un sito su cui le imprese potranno consultare il “catalogo” di tutti i brevetti delle università divisi per settori tecnologici: idee che con un piccolo investimento possono portare grandi benefici”.
Il centro italiano che sta in piedi con i progetti per le aziende – Ci sono poi casi virtuosi di partnership pubblico-privata in cui a mettere le risorse sono le aziende. Per esempio il Cefriel, centro di eccellenza Ict partecipato da Politecnico di Milano, Statale, Bicocca, Regione Lombardia e gruppi come Eni, Hp, Microsoft, Pirelli, Tim e Vodafone. Ha 140 dipendenti e non riceve fondi pubblici. Tra i prototipi diventati prodotti ci sono l’airbag per i motociclisti di Dainese e il bidone della spazzatura che comunica quando è pieno, utilizzato da A2a. “Spesso ci chiedono di essere come il Fraunhofer”,o sserva il numero uno Alfonso Fuggetta. “Ma i centri della galassia Fraunhofer prendono un 30% di risorse dai Länder. Noi invece viviamo solo con i ricavi dei progetti per le imprese e partecipando a bandi nazionali ed europei”.